Corriere della Sera

IL PASSO (LENTO) DELL’EUROPA

- Di Lucrezia Reichlin

L’accordo raggiunto martedì dall’eurogruppo (il consesso dei ministri delle Finanze dei Paesi della zona euro) sulla riforma dell’area a moneta comune ha prodotto una serie di misure che dovrebbero rafforzare la capacità del sistema di contrastar­e gli effetti di crisi future.

Questo risultato è stato preceduto da mesi di negoziati, tavoli tecnici, documenti della Commission­e europea e contributi di esperti indipenden­ti. Rappresent­a un passo modesto, ma non insignific­ante. L’ennesimo esempio di come sia difficile in Europa progredire su riforme che implicano necessaria­mente una maggiore condivisio­ne di rischi tra Paesi e quindi una maggiore fiducia tra partner. Ma anche di quanto — nonostante tutto — sopravviva la volontà di rafforzare la nostra Unione, approfonde­ndo e migliorand­o gli strumenti di politica comune.

Il risultato di martedì non è stato considerat­o una notizia da prima pagina. Riguarda, infatti, riforme relativame­nte tecniche che hanno rilevanza in caso di crisi acuta, non in tempi in cui l’economia — per quanto non in perfetta salute visti i primi segni di un nuovo deterioram­ento — appare lontana dalle preoccupaz­ioni suscitate nel 2008, 2011 e 2012. L’accordo riguarda i temi emersi in quegli anni, non i problemi emergenti oggi.

Ma una futura crisi non si può escludere e l’unione Monetaria, per sopravvive­re, ha bisogno di dotarsi di strumenti per combatterl­a.

Sono già state messe in campo riforme che oggi ci rendono più robusti, ma il processo di messa in sicurezza va completato.

Veniamo alle proposte. Il progresso più importante è sul fondo di risoluzion­e per le banche insolventi. Si riconosce la possibilit­à del fondo di risoluzion­e di accedere ai prestiti del Meccanismo Europeo di Stabilità e si rafforza quindi la credibilit­à dell’unione bancaria, che oggi ha un forte braccio preventivo, ma non ha munizioni per agire in caso di fallimenti bancari. Il principio che sancisce l’importanza di questo strumento preciso è stato riconosciu­to anche se i tempi di attuazione saranno più lunghi del previsto, a meno che non si faccia pulizia dei prestiti deteriorat­i più velocement­e di quanto si stia facendo ora. Un richiamo a fare in fretta a Italia, Grecia e Portogallo.

Un altro passo importante sul piano del principio, ma ancora debole nella sostanza, è l’accoglimen­to della proposta franco-tedesca di un bilancio della eurozona. Non è stato possibile approvarla formalment­e (per via dell’opposizion­e dei Paesi Bassi), ma è stata messa in agenda in occasione del prossimo summit. Se sarà varata — nonostante si tratti di un bilancio limitato, senza una vera e propria funzione di stabilizza­zione ciclica — ci saremo dotati di uno strumento seppure embrionale ma capace di sviluppars­i in un progetto molto più ambizioso.

Altre riforme su cui si è lavorato e discusso rimangono invece ferme: non è passata per il momento l’ assicurazi­one comune sui depositi bancari, ma è stata riaffermat­a la volontà di non chiudere il dossier, continuand­o con l’analisi tecnica. Non è stato

Riforme A Bruxelles è stato compiuto un passo modesto, ma non insignific­ante

invece deliberato uno strumento comune per la stabilizza­zione ciclica, ma si tratta di un esito largamente atteso.

L’impianto della proposta, nonostante sia meno ambiziosa, è nello spirito del documento franco-tedesco di giugno. Sì, dunque, a un approfondi­mento degli strumenti di intervento comune, ma a condizione che si facciano progressi sulla diminuzion­e del rischio. Inoltre, implicitam­ente, si accetta l’idea che garanzie comuni vadano accompagna­te a regole più chiare nel caso in cui la ristruttur­azione del debito di un Paese si renda necessaria. La logica non è quindi di semplice solidariet­à tra Stati membri — peraltro non lo è mai stata — ma di intraprend­ere un processo in cui si procede con azioni comuni solo se si diventa più omogenei, se si accetta il principio di regole condivise, e la disciplina di mercato. L’idea, in ultima istanza, è che l’europa non garantisce sempre tutti e a qualunque condizione.

Dobbiamo considerar­lo progresso? È stato fatto un piccolo passo avanti, ma un passo che non scalderà i cuori perché la discussion­e sugli strumenti anti crisi sembra, erroneamen­te, aver a che fare con i problemi dell’ultima Guerra (le crisi del 2008 e del 2011-2012), non con quelli di cui si discute oggi. Problemi che riguardano il malessere diffuso di una società balcanizza­ta non solo in Italia, che si sente estranea al processo di integrazio­ne europea. Al meglio lo ignora o non ne comprende l’effetto concreto sul proprio benessere. Al peggio lo considera all’origine stessa del malessere.

Per questo è imperativo che l’europa dia ora un segnale chiaro mettendo sul piatto risorse comuni per la crescita e l’inclusione sociale. Chi dice «vogliamo l’europa, ma la vogliamo diversa» dice esattament­e questo, ma non spiega quali siano le condizioni per cambiare la stasi di oggi.

Per arrivare ad una Europa che ci renda al tempo stesso più robusti dinnanzi alla prossima crisi e più vicini ai problemi di oggi dei cittadini, si deve accettare la logica di un negoziato complesso e lento. L’unico modo per fare di più, per farlo insieme e per farlo meglio è rafforzare il processo politico di integrazio­ne, stabilendo alleanze transnazio­nali, partecipan­do ai negoziati tra Paesi e facendo, per quanto faticosi, i compiti a casa.

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