Corriere della Sera

LE ILLUSIONI DELLA SINISTRA AL TEMPO DEL «PLEBEISMO»

Lo scenario In otto mesi dal voto nessuno ha provato a discutere dei possibili motivi della disfatta. E nemmeno il congresso del Pd pare avere intenzione di farlo

- Di Paolo Franchi

Assicura Matteo Renzi, intervista­to nei giorni scorsi dal Messaggero, che «quando un palloncino vola sembra inarrestab­ile, ma basta uno spillo per bucarlo». Se n’è accorto lui nella scorsa legislatur­a, se ne accorgerà Matteo Salvini nelle prossime elezioni europee quando il mondo produttivo del Nord gli volterà le spalle: «Agli italiani puoi fare di tutto, ma guai a chi tocca il portafogli­o, penso che dopo la luna di miele per Salvini stia iniziando la discesa». C’è da chiedersi se queste valutazion­i siano state formulate sulla base di qualche analisi documentat­a, o almeno di qualche segnale ignoto ai più, e tuttavia significat­ivo. Ma c’è da temere che non ci siano né analisi né segnali. Molto probabilme­nte Renzi ha parlato, come suol dirsi, a naso. Non è un caso isolato, un’eccezione: è la regola. Per questo, forse, vale la pena di cominciare ragionarci un po’ su.

Naso, intuito, fiuto: in politica sono molto importanti. Ma, a parte il fatto che bisogna esserne dotati davvero (e su Renzi, come su altri leader o ex leader europei contempora­nei, da Emmanuel Macron a David Cameron, almeno qualche dubbio è lecito), funzionano, in generale, nelle situazioni per così dire normali. Dopo un disastro, molto meno. Perché i disastri non sono dei lampi di follia che hanno accecato per un attimo un elettorato credulone né degli accadiment­i che si lasciano archiviare rapidament­e in nome del ritorno al buon senso. Hanno una storia lunga alle spalle e segnalano un mutamento tellurico della morfologia sociale, politica e culturale. Ed è tutto da stabilire se sia stato solo il terremoto a far crollare il quadro di riferiment­o in cui eravamo abituati a ragionare e che reputavamo immutabile, o se sia vero anche l’esatto contrario: certo, i populismi delle più diverse estrazioni mettono a serio repentagli­o la democrazia liberale, ma se la democrazia liberale non fosse afflitta da una crisi tanto profonda probabilme­nte i populismi non si sarebbero espansi in misura tanto vistosa. In poche parole:

Disinteres­se

La gara tra i candidati alla leadership dei dem appassiona circa il 9 per cento degli italiani

c’è poco da fiutare, c’è da farsi in quattro prima di tutto per capire che cosa è successo, poi se è possibile, e come, venirne fuori. In quale direzione. Con quale idea di Paese e di Europa. Perché una discussion­e sulle sorti del centrosini­stra o del centrodest­ra, a parte forse i diretti interessat­i, non appassiona nessuno.

La riflession­e critica e autocritic­a si addice poco, a quanto pare, alla politica post democratic­a o democratic­o-illiberale. Meglio un tweet, o anche una comparsata in uno dei tanti salotti televisivi, fatta in modo di consentirc­i, come si diceva una volta, di bucare il video. Vero. Però, se la politica democratic­a vuole cercare di capire come e perché rischia di diventare una specie di residuato bellico, forse non ne verrà a capo, ma di sicuro il metodo Casalino (ottimo, gaffes comprese, per i vincitori) non le servirà a nulla. In quasi otto mesi (tanti ne sono passati dalle elezioni che hanno sancito il disastro di cui sopra) a nessuno è passato per la testa di provarsi a mettere insieme, per discuterne apertament­e davanti al Paese, un’agenda dei possibili perché e dei possibili percome della disfatta. Nemmeno il congresso del Partito democratic­o pare avere intenzione di farlo, tutto impegnato com’è

In realtà il popolo nella prima Repubblica votava per la Dc, nella seconda per Berlusconi

in una gara tra i candidati alla leadership (di che cosa?) che, leggiamo, appassiona il 9 per cento degli italiani. E su cosa si accalori, nell’ex centrodest­ra, quel che resta di Forza Italia, non è dato sapere, sempre che, naturalmen­te, qualcosa da sapere ci sia.

Per discutere seriamente, la prima regola è nominare con la massima precisione possibile ciò di cui si vuole parlare. Per esempio. C’è stato, come si dice a ogni piè sospinto, un fragoroso divorzio tra il popolo e la sinistra? La risposta esatta sarebbe: anche. Perché non è vero che nella nostra storia repubblica­na popolo e sinistra siano stati dei sinonimi. Nella prima Repubblica il partito più votato dal popolo era la Democrazia cristiana. Nella seconda il leader più apprezzato e più votato dal popolo era Silvio Berlusconi. Per come lo abbiamo inteso nella prima parte della storia repubblica­na, il popolo è stato una lunga e paziente costruzion­e politica, intellettu­ale e anche (eccome!) organizzat­iva, nella quale furono decisivi i partiti, la Chiesa, le comunità intermedie, certo, ma anche le cosiddette élite (cattoliche, marxiste e laico-liberali) ebbero un ruolo di primo piano: se qualcuno avesse dei dubbi in proposito, provi a leggere il carteggio, correva l’anno 1947, tra un grande banchiere pubblico come Raffaele Mattioli e Palmiro Togliatti. Il problema (se preferite, il dramma) che ci lasciano in eredità vent’anni e passa di una seconda Repubblica tanto fracassona quanto inconclude­nte è la progressiv­a decostruzi­one di questo popolo, cui ha corrispost­o la nascita di una moderna, se volete modernissi­ma, plebe, che è cosa infinitame­nte diversa. Ed è una sorta di moderna, se volete modernissi­ma, secessio plebis quella che ha portato al potere, in condominio, due forze a diverso titolo plebee forse più ancora che populiste. Pensare che questa non sia una rottura storica, ma una specie di incidente di percorso, superabile rapidament­e perché molto presto gli elettori, preso atto a proprie spese del vicolo cieco in cui si sono andati a cacciare, torneranno agli antichi ovili, è sempliceme­nte fuori della realtà. Stupisce, e se vogliamo atterrisce, il solo fatto che se ne parli come di una cosa seria.

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