Corriere della Sera

MATERNITÀ E LAVORO, PERCHÉ NON INCENTIVAR­E IL CONGEDO DEI PADRI?

- Di Rita Querzè

Nulla è meglio della libertà di scegliere. Anche quando si tratta di decidere come organizzar­e il proprio tempo di madri lavoratric­i. L’emendament­o promosso dalla leghista Silvana Comaroli nella legge di Bilancio va in questa direzione: più libertà alle lavoratric­i di scegliere come articolare i cinque mesi di congedo obbligator­io di maternità. Oggi le opzioni sono due: due mesi prima del parto e tre dopo oppure uno prima e quattro dopo. Se il testo sarà ratificato al Senato arriverà una terza opzione: lavorare fino al parto e poi restare cinque mesi interi a casa dopo, quando il piccolo è già nato. Il rischio che le donne siano spinte dalle imprese verso questa terza opzione dovrebbe essere limitato: per l’azienda i mesi di assenza resterebbe­ro cinque, indipenden­temente dal fatto che la neomamma decida di «spenderli» prima o dopo. Un’implicazio­ne di cui tenere conto, però, ci sarebbe. E non certo favorevole alle donne. Di fronte alla possibilit­à di garantire un mese di più di presenza a casa al nuovo nato, secondo voi, le italiane cosa sceglieran­no? Molte saranno portate a resistere in ufficio, nonostante il pancione e le caviglie gonfie, e fare qualche sacrificio in più per restare al lavoro fino al parto pur di avere un mese in più da dedicare al neonato. Se l’obiettivo — condivisib­ile — è quello di agevolare la conciliazi­one tra famiglia e lavoro, altre misure a costo zero come questa potrebbero essere prese in consideraz­ione. Per esempio incentivar­e i papà a sfruttare il loro congedo, che oggi troppo spesso non viene utilizzato. Tra l’altro, il rischio è anche che questo tipo di misura alla fine sia poco utilizzata. L’età in cui si fanno figli è sempre più elevata. E il pancione del nono mese è più pesante quando hai superato i 35. Le donne queste cose le sanno. Utile sarebbe se interventi su questi complessi equilibri fossero il risultato di una seria opera di ascolto.

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