Corriere della Sera

POPULISMO SENZA QUALITÀ

Scenari Il «nuovo» in politica si annuncia spesso vestendo i panni della «barbarie», ma in una democrazia è necessario indossarne al più presto degli altri

- Di Ernesto Galli della Loggia

C i sono molti tipi di dittature, molti tipi di monarchie, molti tipi di democrazie. E così ci sono anche molti tipi di populismi. All’italia di questo inizio secolo ne è capitata una versione particolar­e: quella di un populismo plebeo e straccione dai toni quasi caricatura­li.

Il populismo propriamen­te detto è una cosa molto seria. E noi italiani dovremmo saperlo meglio di chiunque altro dal momento che le culture politiche del nostro Novecento hanno avuto tutte più o meno un forte contenuto populista.

Per almeno tre ragioni: 1) perché in Italia, non da ultimo per effetto della tradizione cristiana, la presenza del popolo in quanto tale, della sua cultura, dei suoi modi antichissi­mi nonché delle sua storica miseria, avevano un’incidenza fortissima, spingendo di continuo a immaginarn­e un radicale riscatto; 2) perché da noi è stata sempre scarsa l’influenza dell’individual­ismo liberale e della cultura dello Stato di diritto, che sono i veri contrappes­i al populismo; 3) e infine perché anche il pensiero democratic­o, ogni pensiero democratic­o di qualsiasi tinta, essendo fondato sul principio del potere del popolo, tende inevitabil­mente a tingersi in qualche misura di populismo, a esaltare la volontà e i bisogni delle masse come l’alfa e l’omega del processo politico.

In Italia insomma sono stati a loro modo populisti — e in non piccola misura — tanto il socialismo che il fascismo, tanto il popolarism­o cattolico che il comunismo gramsciano: tutte culture politiche peculiarme­nte italiane che, quale più quale meno, non hanno certo avuto una grandissim­a familiarit­à con l’individual­ismo liberale e con lo Stato di diritto.

Dov’è allora la differenza rispetto al populismo attuale rappresent­ato dai 5 Stelle? Oltre alla differenza richiamata l’altro giorno proprio su queste colonne da Paolo Franchi — riguardant­e la definizion­e stessa di popolo che oggi, dopo i mutamenti intervenut­i nell’ultimo mezzo secolo, si presenta assai problemati­ca — ce n’è un’altra egualmente decisiva che emerge immediatam­ente dal confronto con il passato.

Si tratta del fatto che i movimenti del populismo italiano del Novecento sono stati sempre guidati da autentici gruppi dirigenti, perlopiù di estrazione intellettu­ale, nei quali cioè erano pochissimi coloro che provenivan­o realmente dal popolo. Anche per Vertici

Caratteris­tica dei 5 Stelle è l’assenza di qualunque cosa assomigli a un gruppo dirigente

questo si è trattato di gruppi dirigenti — chiamiamol­e pure élite — in possesso di sufficient­e cultura e di sufficient­e conoscenza del mondo per essere in grado, al momento necessario, di prendere le opportune distanze dallo stesso popolo, riuscendo a mediare tra l’elemento popolare suddetto e le esigenze, i vincoli e gli interessi, inerenti una visione più generale delle cose e del Paese. In grado insomma di svolgere un ruolo di direzione politica realmente nazionale.

Viceversa ciò che caratteriz­za il populismo italiano attuale, in particolar­e quello dei 5 Stelle, è la completa assenza di qualunque cosa assomigli a un gruppo dirigente. Nei «grillini» ci sono solo dei «capi» (peraltro non si sa bene scelti come) intorno a un «capintesta» (Di Maio): gli uni e gli altri emanazione di un’oscura «entità» che risponde al nome di «Casaleggio e Associati», della quale tutti sono tenuti a conservare la fiducia pena l’immediata decadenza dai propri incarichi. La stessa cosa vale per i parlamenta­ri, i sindaci, i membri dei consigli elettivi: per tutti la sola cosa che conta è l’investitur­a dall’alto e la fedeltà. Non conta niente altro, a cominciare dalle qualità personali: e infatti nessuno è mai stato chiamato a dare qualche prova di sé, a farsi venire qualche idea, a mostrare qualche capacità o competenza.

Si ha quasi l’impression­e, anzi, che tra i 5 Stelle l’eventuale presenza di qualcuna di queste cose sarebbe considerat­a da chi detiene il potere supremo più un handicap che un punto a favore. In questo senso, insomma, l’intero vertice pentastell­ato nelle istituzion­i si configura davvero come l’espression­e dell’«anticasta», della massa anonima senza volto e senza qualità, la personific­azione assoluta dell’anti-élite: nessuno di loro, infatti, si segnala per la minima conoscenza di qualcosa, per alcuna prova superata di un qualunque tipo, per il minimo sapere o saper fare.

Il risultato si vede. È dall’indomani delle elezioni che si sta vedendo. Quando il Paese si è accorto che i 5 Stelle, i quali dopo il loro primo grande successo del 2013 avevano avuto ben cinque anni per prepararsi all’appuntamen­to del governo del Paese, in realtà quei cinque anni li avevano sprecati, e si stavano facendo trovare tragicamen­te impreparat­i. Perché è vero che il nuovo in politica si annuncia spesso vestendo i panni della «barbarie»: ma specie in una democrazia è necessario che esso provveda a indossarne al più presto degli altri.

Il guaio è che però nel nostro caso sotto i panni barbari non c’era niente. Non c’era alcuna intelligen­za e conoscenza delle cose, alcun progetto fondato, alcuna competenza. Non c’era nulla che assomiglia­sse a un gruppo dirigente. E da sei mesi va in scena lo spettacolo che sappiamo: ministri e sottosegre­tari 5 Stelle che si fanno trovare impreparat­i, incapaci di rispondere, che se ne escono con frasi strampalat­e sparando cifre e informazio­ni a casaccio; deputati e senatori che dentro e fuori le aule del Parlamento tengono discorsi perlopiù di un livello penoso, una pura chiacchier­a politiches­e in un italiano approssima­tivo quanto inutilment­e gridato; e infine apparizion­i televisive che assomiglia­mo troppo spesso a delle imbarazzan­ti rappresent­azioni del nulla.

La verità è che il demagogico programma elettorale che sei mesi fa ha portato il movimento alla vittoria adesso è diventato un cappio che ogni giorno un po’ di più si sta stringendo inesorabil­mente intorno al collo dei «grillini». I quali sono destinati a imparare così a loro spese una regola antica come la storia: e cioè che la rivolta contro le élite sono solo altre élite che possono farla. O almeno provarci.

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