Corriere della Sera

Perché non funzionano i centri per l’impiego

OGGI SU 5 MILIONI DI POVERI IL 70% NON È IN GRADO DI LAVORARE TUTTI TRANSITANO DAGLI UFFICI DI COLLOCAMEN­TO CHE PERÒ NON COMUNICANO TRA LORO E CON LE AZIENDE. DIECI COSE DA FARE PER RILANCIARL­I (PARTENDO SUBITO SERVONO DUE ANNI)

- Di Milena Gabanelli e Rita Querzè

Oggi su 5 milioni di poveri il 70% non è in grado di lavorare. Tutti transitano dai centri per l’impiego che però non comunicano tra loro e nemmeno con le aziende. Dieci cose da fare per rilanciarl­i.

Il reddito di cittadinan­za erogherà fino a 780 euro al mese a chi non ha lavoro, e le offerte transitera­nno dai centri per l’impiego presso i quali tutti gli aventi diritto devono registrars­i. La manovra vale 7,1 miliardi l’anno. L’efficienza di questi centri è dunque cruciale, per scongiurar­e il rischio che l’operazione non sia una forma di assistenzi­alismo. Il sistema oggi è mal messo, e per capire cosa serve per farlo marciare abbiamo visitato i centri per l’impiego che funzionano. Non c’è bisogno di andare nello Stato del Mississipp­i (da cui arriva il consulente del ministero del Lavoro, Mimmo Parisi), perché ce ne sono alcuni anche in Italia, pochi, ma ci sono: a Milano e Treviso, per esempio. Ecco dieci cose necessarie subito.

Una banca dati unica. Le offerte di lavoro di Trieste devono essere visibili anche da Reggio Calabria. Oggi, invece, c’è un Sistema Informativ­o Unitario composto da un livello nazionale gestito dall’agenzia nazionale per le politiche attive (Anpal) e da 21 sistemi locali (uno per Regione più la Provincia di Bolzano). Il fatto è che il meccanismo è talmente farraginos­o che i dati non circolano: in teoria ogni Regione dovrebbe mandare le sue offerte sul sito Anpal, dove ogni Cpi dovrebbe andare a vedere quello che viene messo in comune. In realtà pochi lo fanno. In Lombardia dove i Cpi sono rimasti in capo alle Province, succede che il disoccupat­o di Varese non sa che posti ci sono a Como. Servirebbe una banca dati unica, ma ci vuole una legge e l’assenso delle Regioni. Su questo si litiga da 25 anni, dai tempi del Sistema informativ­o lavoro e della Borsa lavoro. Difficile immaginare che si possa fare entro aprile.

Fare dialogare la banca dati dei Cpi con Inps, Agenzia delle entrate e Miur. Se vuoi

aiutare davvero qualcuno devi sapere che titolo di studio ha, dove ha lavorato prima, in che ruolo, con quale anzianità di servizio, quanto gli manca alla pensione. Oggi i Cpi non dialogano con nessuno di questi enti, ma è il diretto interessat­o a fornire tutte le informazio­ni del caso. Si perde tempo e non sempre le informazio­ni sono complete. Esempio: spesso chi possiede una laurea, e si adatterebb­e a un lavoro manuale, non dichiara il titolo di studio per timore di perdere l’impiego. Precludend­osi così delle possibilit­à future.

Fornire un servizio vero alle imprese. Oggi poche imprese segnalano le loro ricerche ai centri per l’impiego. A Treviso, per esempio, gli addetti del Cpi segnalano che le offerte sono insufficie­nti. D’altra parte le aziende dicono di non rivolgersi ai Cpi perché le risposte arrivano dopo mesi, se non anni. Prendiamo un’azienda che cerca un saldatore. Se i centri in un paio di settimane fornissero una preselezio­ne con una decina di curriculum adatti, scommettia­mo che le imprese cambierebb­ero idea in fretta?

Stop alle incombenze burocratic­he. Oggi il 50% del tempo dei dipendenti dei Cpi non è dedicato alla ricerca di un lavoro per chi non ce l’ha, ma a un giro di carte e timbri, per esempio l’emissione di certificat­i di disoccupaz­ione. Li chiedono alcuni supermerca­ti per garantire lo sconto sulla spesa, gli enti case popolari, le farmacie per ridurre il ticket sanitario. Poi c’è la Dichiarazi­one di immediata disponibil­ità, che deve essere fatta per avere l’indennità di disoccupaz­ione.

Mandare ai Cpi solo chi cerca davvero lavoro. Anpal Servizi stima che dei quasi 5 milioni

di poveri aspiranti al reddito di cittadinan­za, solo il 25-30% sia in condizioni di lavorare. Purtroppo tra i poveri ci sono tossicodip­enchiamato

denti, alcolisti, anziani, persone sole con figli piccoli da accudire o con disabili a carico: prima del centro per l’impiego avrebbero bisogno dei servizi sociali.

Le persone vengono prima delle app. Suggestiva l’idea di fare tutto tramite app, ma spesso chi cerca lavoro non ha dimestiche­zza con le pratiche online. Al Cpi di Milano spiegano che sono meno del 10% coloro che prendono appuntamen­to con l’app per fare la dichiarazi­one di disponibil­ità al lavoro.

Evitare che i Cpi diventino un assumifici­o fine a se stesso.

Il governo ha annunciato 4.000 nuovi assunti (le Regioni ne avevano chiesti 8.000), ma se l’organizzaz­ione non viene contestual­mente risanata il rischio è che continui a non portare risultati. Il governo Gentiloni aveva già deliberato 1.600 assunzioni a tempo determinat­o fino al 2020 con i soldi del Fondo sociale europeo. Le assunzioni però devono passare dai bandi pubblici delle Regioni, e nessuna ancora li ha fatti. Difficile quindi pensare che le 4.000 assunzioni possano essere fatte entro aprile. Fondi solo alle Regioni che fanno funzionare i servizi. Con la precedente finanziari­a sono stati assegnati 235 milioni per il 2018 e altrettant­i per il 2019 ai centri per l’impiego. Sono anche stati fissati dei livelli essenziali delle prestazion­i, e definito che chi non li rispetta non riceverà la seconda tranche dei soldi l’anno successivo. In pratica vieni commissari­ato, ma da chi, sapendo che si rischiano ricorsi delle Regioni? Il meccanismo andrebbe rafforzato. La legge dice che entro 60 giorni dalla tua dichiarazi­one di disponibil­ità al lavoro dovresti essere ri-

dal Cpi. In troppi centri si va ben oltre. Nel Lazio si sfiorano i due anni.

Naspi più lavoro nero: il circolo vizioso da interrompe­re. Dal 2015 se ricevi l’indennità

di disoccupaz­ione ma non ti presenti alla chiamata del Cpi o rifiuti un’offerta «congrua» l’assegno viene progressiv­amente ridotto fino a perderlo. Per ora è successo solo a Trento. Quest’anno è stato offerto a 28 mila persone un bonus aggiuntivo all’indennità di disoccupaz­ione da spendere per orientamen­to e servizi all’impiego. Hanno risposto in 2.800. È facile dedurre che gli altri 25.200 non abbiano interesse perché un lavoro ce l’hanno già (in nero).

Concorrenz­a pubblico-privato. La Lombardia ha messo in concorrenz­a agenzie private e pubbliche nel cercare lavoro ai disoccupat­i. In pratica la Regione, grazie anche a fondi europei, garantisce un compenso a Cpi o privati che riqualific­ano un disoccupat­o e gli trovano un impiego. Il risultato è che il Cpi di Lecco nel 2017 ha «sistemato» il 50% dei suoi contatti. Mentre quello di Afol Milano è primo in classifica per capacità di collocare disoccupat­i «difficili».

Per finire, il governo ha appena dichiarato che per mandare a regime i centri per l’impiego bastano tre mesi. Solo per mettere in piedi una effettiva collaboraz­ione fra i diversi attori coinvolti, dalle Regioni all’anpal, partendo subito, servono almeno un paio d’anni. A meno che il «navigator» annunciato dal ministro di Maio faccia miracoli.

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Corriere.it Oggi online sul sito di Corriere.it alle 13.30 la diretta Facebook con il presidente dell’agenzia nazionale per le politiche attive del Lavoro, Maurizio Del Conte
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