Corriere della Sera

«La mia Europa senza più padri»

L’analisi dell’intellettu­ale su conflitti e rivendicaz­ioni popolari, non solo in Francia Julia Kristeva: «Troppa tecnica, ripartiamo dalla cultura»

- Di Stefano Montefiori

«La grande sconfitta, nella cacofonia mondiale delle nazioni oggi, è l’europa»: la filosofa Julia Kristeva, in un’intervista al Corriere, riflette sulla crisi politico-ideale del continente.

«La cultura europea esiste, la sua PARIGI lingua è il multilingu­ismo, e il comune denominato­re è la cultura dell’individuo, della nazione, della politica. Sono creazioni giudaico-cristiane, che si sono sviluppate nel tempo e che non sono culti ma aperture fragili. Il grande problema oggi è come armonizzar­e queste culture nazionali. Tutto il mio lavoro di intellettu­ale, ovvero psicoanali­sta, romanziera, filosofa, semiologa, affronta questo argomento». Incontriam­o Julia Kristeva nella sua casa di Parigi, due giorni prima della visita a Milano e della laurea honoris causa alla Iulm, per anticipare i temi del suo intervento. Inevitabil­e che la cultura e l’europa si intreccino con gli avveniment­i appena vissuti da Parigi e della Francia: la rivolta dei gilet gialli e la crisi della politica.

Come giudica lo stato attuale della cultura europea?

«Intanto, è già un punto di partenza affermare, come io mi sento di fare, che una cultura europea esiste. Quando ho accettato la proposta di venirne a parlare a Milano, tutti sapevamo che la grande sconfitta, nella cacofonia mondiale delle nazioni oggi, è l’europa. Ma non eravamo ancora in questa situazione di crisi violenta. Quel che è appena accaduto a Parigi a mio avviso è un avviso di tempesta per tutta l’europa, non solo per la Francia».

In tempo di conflitto aperto tra sovranisti e élite vengono subito in mente le critiche degli esclusi: facile parlare di cultura europea per chi è abituato a prendere aerei per visitare mostre a Venezia e Firenze o per passare qualche giorno nel proprio pied-à-terre a Parigi. E gli altri?

«Io ho una visione della cultura molto più larga. La cultura è una concezione deldi l’individuo, uno sguardo sulla singolarit­à di ciascuno, una cultura di patto nazionale, che si interessa alla diversità delle lingue e alla nozione di felicità, di valore, di progetto ideale per l’avvenire. Questa cultura non è affatto elitista e riguarda anche il contadino e l’artigiano».

Anche quelli che da quattro sabati manifestan­o a Parigi e nel resto della Francia?

«Non possiamo neanche sperare di risolvere la crisi dei gilet gialli se non ci affidiamo alla filosofia e alla sociologia per affrontare la questione del senso delle persone, della nazione, degli ideali, del futuro».

Eppure le rivendicaz­ioni dei gilet gialli sono molto concrete: chiedono meno tasse e più potere d’acquisto.

«Certo, e io credo che il governo debba senz’altro mettere mano alla cassa e soddisfare almeno una parte delle loro richieste. Non voglio dare l’impression­e di stare sulle nuvole, cominciamo con i piedi per terra e diciamo che adesso è il momento aprire il portafogli. Fatto questo primo passo necessario ma insufficie­nte, dobbiamo resistere alla tentazione di considerar­e gli scontenti solo come consumator­i in difficoltà, perché sotto c’è un malessere molto più profondo».

A che cosa si riferisce?

«Alla fine della politica per come la conosciamo da oltre due secoli. Una cosa è successa molto tempo fa in Europa, e solo in Europa: la rottura del filo della tradizione religiosa. Con la Rivoluzion­e francese — né dio né padrone — abbiamo cancellato dio, tagliato la testa al re e messo al loro posto l’ideologia dell’umanesimo, che ha finito per diventare un valore astratto. La politica è diventata la nuova religione, con l’idea che la democrazia rappresent­ativa possa risolvere i problemi della felicità, della morte, dell’avvenire, l’inferno e il paradiso qui sulla Terra. Abbiamo dato alla politica responsabi­lità enormi, e questo modello è crollato con la Shoah e i gulag. Sopravvive a stento un’idea più ridotta della politica come gestione dell’esistente,

Passaggi Ci troviamo in una specie di tardo Medioevo: non contano più i grandi ideali

gestione che è comunque soffocata dalla finanziari­zzazione dell’economia e della rivoluzion­e digitale. In questo stato di cose la politica si riduce a showbiz o carnevale. Donald Trump ne è l’espression­e, e infatti arriva ad adattarsi alla situazione meglio degli altri».

Che cosa significa la politica come gestione?

«È una politica dell’impotenza, della contabilit­à, in cui fingiamo di credere che

il problema sia davvero l’aumento del prezzo del diesel. Lo è ma solo in parte, e infatti anche quando l’aumento viene ritirato le proteste continuano. Ci troviamo in una specie di tardo Medioevo, quando uno dei miei grandi punti di riferiment­o, Duns Scoto, disse che non ci sono altri valori se non questo uomo, questa donna. Non i grandi ideali, non la materia, ma la persona. Solo che dopo il tardo Medioevo arrivò il Rinascimen­to, e un passaggio simile mi sembra ancora molto lontano da noi».

Quali caratteris­tiche hanno queste persone, in Francia e nel resto d’europa?

«I cosiddetti perdenti della globalizza­zione sono mal pagati ma soprattutt­o frustrati, la rivoluzion­e digitale li rende onnipotent­i in teoria ma non nella pratica. Vogliono rompere questo ordine ma per adesso non hanno alternativ­e da proporre. Invocano le dimissioni di Macron, ma allo stesso tempo dicono che con un altro al suo posto le cose non cambierebb­ero. Qui arriviamo alla nozione di popolo. Robespierr­e diceva che il popolo ha sempre ragione, invece per Wilhelm Reich certe masse vogliono il fascismo. Tra queste due visioni estreme e opposte bisognereb­be provare a rispondere alle emozioni insoddisfa­tte e agli ideali senza risposta. Magari ricorrendo alle categorie della psicoanali­si».

Qui entra in gioco il suo lavoro di psicoanali­sta. In che modo?

«Sento molte persone ripetere che vorrebbero un presidente “padre della nazione”. È una frase molto interessan­te per una psicoanali­sta perché la famiglia è in crisi di ricomposiz­ione e siamo tutti alla ricerca del padre perduto. Gli unici padri oggi in politica sono un po’ clowneschi come Trump, o i dittatori. Quel che succede invece è che i nostri governanti giocano con la figura del fratello».

Cioè i presidenti di oggi non sono più padri della nazione ma fratelli?

«Sì, e il fratello è una figura importante nell’evoluzione di un individuo. Gli adolescent­i sono tutti fratelli e condividon­o passioni reversibil­i, amore che diventa odio e viceversa. Questa reversibil­ità si chiama omoerotism­o — che non significa omosessual­ità — e innamorame­nto. E lo abbiamo visto benissimo con il presidente Macron: adorato all’improvviso, e altrettant­o repentinam­ente odiato».

Lo accusano di tutto: di parlare troppo o troppo poco, di essere troppo arrogante o troppo amichevole.

«Perché parla un linguaggio di vicinanza, tattile, sia con i pregiudica­ti delle Antille sia con i disoccupat­i che lo avvicinano per strada. Pensa forse che questa vicinanza tattile risponderà alle angosce delle persone ma no, al contrario, le fomenta. Resta nella reversibil­ità adolescenz­iale di amore e odio. I cittadini non capiscono il leader che gioca al loro livello, prendono questa familiarit­à per arroganza. Ma come Macron fanno molti altri. I leader attuali sono fratelli, non padri. Tra fratelli ci si ama e ci si odia, senza sosta. È una parte di noi che sopravvive. Tra colleghi, amici, uomo e donna, giochiamo al gatto e topo. Ma il campo politico non deve ridursi a questo. E i fratelli tradiziona­li in politica non ci sono più».

A che cosa si riferisce?

«Alle tipiche fraternità che sono i corpi intermedi, i sindacati, le organizzaz­ioni non governativ­e, le associazio­ni, la scuola, la Chiesa, l’esercito. Tutte queste istituzion­i sono in crisi ovunque e alcuni presidenti, come il nostro in Francia, hanno diminuito il loro peso pensando che il capo dello Stato fratello avrebbe potuto fare tutto, occupare tutti quei ruoli. Non è così».

Quanto sono importanti i social media?

«Molto, perché la debolezza della politica e del capo dello Stato che non è più il padre della nazione si abbina a una interconne­ssione continua. Questa interconne­ssione digitale genera identità liquide, le persone non sanno neanche più come definirsi. C’è un odio che poi si diffonde al mondo reale».

Che cosa dovrebbe fare oggi un leader politico?

«Ovviamente non oso proporre soluzioni, i miei sono contributi alla riflession­e, e poi non voglio essere troppo critica con Emmanuel Macron. Nel suo discorso all’inizio della crisi a un certo punto ha detto che la risposta sarebbe stata “la declinazio­ne del pragmatico”. Ma cosa vuol dire? C’è troppa tecnica e troppa freddezza. Direi che la politica dovrebbe non occuparsi più solo della contabilit­à ma anche della cultura, intesa come educazione e accompagna­mento, magari partendo dai valori ancestrali del cristianes­imo, dell’islam e del giudaismo. La questione adesso è interagire con persone che non credono a niente».

In piazza

I perdenti della globalizza­zione: la rivoluzion­e digitale li ha resi onnipotent­i in teoria, non in pratica

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 ??  ?? Julia Kristeva è nata a Sliven, in Bulgaria, nel 1941. Dal ’66 vive e lavora in Francia (foto Tiziana Fabi / Afp)
Julia Kristeva è nata a Sliven, in Bulgaria, nel 1941. Dal ’66 vive e lavora in Francia (foto Tiziana Fabi / Afp)

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