Corriere della Sera

Privacy e politica, Google alla sbarra (ma Pichai va meglio di Zuckerberg)

Il ceo del motore di ricerca testimonia al Congresso Usa: «Nessun piano per la Cina»

- Di Massimo Gaggi

NEW YORK Google nega che i risultati del suo motore di ricerca possano essere in qualunque modo influenzat­i dalle convinzion­i politiche dei suoi dipendenti, promette di rendere più facile, per gli utenti, capire quali loro dati personali vengono raccolti (eventualme­nte bloccandon­e il flusso) e afferma che, per ora, non ha in programma di tornare sul mercato cinese con un sistema di search censurato.

Bollato due mesi fa come «arrogante» per essersi rifiutato di testimonia­re davanti al Senato insieme ai capi di Twitter e Facebook, l’amministra­tore delegato di Google, Sundar Pichai, era atteso ieri al varco dai deputati della Commission­e Giustizia della Camera. Alla sua prima apparizion­e davanti al Congresso, il manager indiano trapiantat­o negli Usa rischiava molto, visto il cambiament­o di umori dell’opinione pubblica e degli stessi politici nei confronti delle aziende tecnologic­he, dal Russiagate in poi. Parlamento e Casa Bianca minacciano di regolament­are l’attività di Big Tech ed erano in molti a chiedersi, anche dentro il gruppo fondato da Larry Page e Sergey Brin, se questo ingegnere specializz­ato in semicondut­tori, asso nella manica di Google nello sviluppo di Chrome e di Android, la piattaform­a usata dalla maggior parte degli smartphone del mondo, potesse diventare anche lo statista del gruppo: il volto politico e diplomatic­o di un gigante tecnologic­o che pesa più di tanti Stati.

Pichai, cordiale e sorridente all’inizio, sempre misurato nelle risposte, abbastanza disinvolto nel far fronte al bombardame­nto di tre ore e mezzo di domande, ha superato la prova senza troppi danni. Certamente ha vinto il confronto a distanza con Mark Zuckerberg, sempre rigido e teso nelle sue testimonia­nze pubbliche. E Google è stata trattata con più rispetto e consideraz­ione di Facebook anche dai parlamenta­ri repubblica­ni, che, pure, hanno accusato il gruppo california­no di avere un pregiudizi­o nei confronti di Trump e dei conservato­ri.

Nei momenti più tesi del dibattito Pichai ha dovuto ammettere che Google raccoglie un’enorme mole di dati sugli utenti a cominciare da quelli relativi ai loro spostament­i, anche di pochi metri, attribuend­o, però, la cosa al funzioname­nto di applicazio­ni che l’utente può sempre disattivar­e. Ma ha potuto fare ben poco per contrastar­e l’obiezione che raramente il consumator­e, anche quando autorizza tutto, è consapevol­e di come la sua privacy verrà alterata.

Altro passaggio delicato sulla Cina dove, secondo alcune indiscrezi­oni, Google vorrebbe tornare con un motore di ricerca censurato chiamato Dragonfly. Pichai ha negato che la società abbia in programma un ritorno nel Paese dal quale è uscita nel 2010 per non sottostare alla censura. Ma, bombardato di domande, ha rifiutato di prendere impegni per il futuro e ha ammesso che l’opzione è stata studiata da un team di un centinaio di ingegneri. La sensazione è che Google vorrebbe rientrare in questo enorme mercato, ma difficilme­nte potrà farlo a breve, viste le crescenti pressioni politiche.

Pichai si è difeso dalle accuse di pregiudizi­o nei confronti della destra, spiegando che il motore di ricerca seleziona le risposte sulla base di una griglia di 200 criteri politicame­nte neutri che esiste da vent’anni. Difficile dire se nella prossima legislatur­a si andrà verso una regolament­azione dei social media evocata ieri da alcuni parlamenta­ri ma non da tutti. Di certo sta aumentando la consapevol­ezza che, se il consumator­e deve comportars­i in modo più maturo quando gestisce le sue opzioni in rete, anche i social media devono evitare di renderle opache per aumentare i loro affari basati sui dati.

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Manager Sundar Pichai, 46 anni

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