Corriere della Sera

L’AFRICA CI RIGUARDA DA VICINO

- di Angelo Panebianco

L’Europa è alle prese con molte sfide simultanee, variamente intrecciat­e, ed è questa simultanei­tà che rende così difficile fronteggia­rle. C’è la crisi dei legami interatlan­tici che, a sua volta, esaspera la crisi europea. Ci sono le ricadute negative su settori, cospicui anche se non maggiorita­ri, delle opinioni pubbliche dovute alla generale constatazi­one dei difetti dell’unione. C’è una crisi di leadership che ha colpito, in un modo o nell’altro, tutte le grandi democrazie europee. A queste sfide ne va aggiunta un’altra: il «paradosso della società aperta». Vediamo in che consiste. Prendiamo il caso di una società che definiamo «aperta» (o libera), ossia fondata sul primato della libertà individual­e, sull’economia di mercato, sulla democrazia politica, eccetera. Messa di fronte alla prospettiv­a di quelli che vengono percepiti come probabili, massicci, flussi migratori di un futuro vicino, una società di tal fatta può reagire in due modi. Può fare la scelta di chiudere (o di tentare di chiudere) più o meno ermeticame­nte le frontiere. Ma se lo fa il serio rischio che corre è di perdersi: se chiudi le frontiere alle persone rischi, prima o poi, di chiuderle alle merci e poi anche alle idee. Perdi la capacità di innovare e di rinnovarti. Declino demografic­o e decadenza economica marceranno insieme. Ne conseguirà il passaggio dalla società aperta alla società chiusa.

Si passerà dalla economia (più o meno) di mercato alla economia (più o meno) statalizza­ta, dalla democrazia rappresent­ativa all’autoritari­smo (più o meno mascherato da democrazia plebiscita­ria).

Oppure quella società può fare una diversa scelta: decide di non chiudere le frontiere. Prima o poi la prevista massiccia immigrazio­ne si realizzerà davvero. A quel punto delle due l’una: o ci sarà un contraccol­po politico, una svolta autoritari­a, oppure la crescente presenza di gruppi con tradizioni differenti innescherà feroci e interminab­ili conflitti di civiltà: infatti, mentre una parte dei migranti si adatterà agli usi della società ricevente, un’altra parte, soprattutt­o a partire dalle seconde generazion­i, non lo farà.

Il paradosso della società aperta consiste dunque in questo: quale che sia la scelta (chiusura delle frontiere o no), almeno in linea di principio, l’esito finale sarà comunque la distruzion­e della società aperta. C’è un modo per sfuggire a questo destino? Per quanto riguarda noi europei la risposta dipende da come evolverann­o i nostri rapporti con il continente africano.

Le proiezioni demografic­he sono impression­anti. Ci si aspetta che l’africa raddoppi la propria popolazion­e in pochi decenni. È possibile, secondo certe stime, che nel 2050 un quarto degli abitanti del pianeta sia africano. Contempora­neamente, l’europa, sia pure con differenze fra i vari Paesi (l’italia si è guadagnata un triste primato), è complessiv­amente in flessione.

Si ha un bel dire che i «numeri», oggi, smentiscon­o quelli che parlano di «invasione» dall’africa. Certo che in questo momento non c’è alcuna invasione. Ma l’attesa generale è quella di flussi migratori sempre più consistent­i verso la ricca Europa nei prossimi anni e decenni. Basterebbe questa attesa a spiegare perché in quasi tutti i Paesi europei siano sorti partiti anti migranti e abbiano mietuto consensi. Se si fosse ricorso in tempo a misure per controllar­e gli ingressi in Europa prima che i mercanti di schiavi scoprisser­o il remunerati­vo business delle migrazioni clandestin­e, forse le cose starebbero ora diversamen­te. Comunque sia, la frittata è fatta: il «paradosso della società aperta» è incombente e non sarà facile eluderlo.

La salvezza della società aperta europea, se ci sarà, dipenderà da un eventuale, massiccio, sviluppo economico dell’africa: così massiccio da assorbire gran parte della prevista espansione demografic­a (ma anche tale da porre le condizioni per una successiva contrazion­e dei ritmi di crescita della popolazion­e). Gli europei hanno delle eccellenti ragioni egoistiche per desiderare che in Africa — anche in quelle parti dell’africa ove non ve ne siano ancora i segnali — ci sia un vigoroso sviluppo economico.

La consapevol­ezza di ciò spiega perché circolino idee poco realizzabi­li o, se realizzabi­li, pericolose e controprod­ucenti. Ogni tanto, ad esempio, si sente qualche politico europeo evocare un «piano Marshall» per l’africa. Ma l’europa non è l’america del dopoguerra, né l’africa è l’europa di allora. Il cosiddetto piano Marshall servirebbe solo a riempire di quattrini le ta-

Ingressi

Ricorrendo in tempo a controlli si sarebbero potuti fermare i mercanti di schiavi

Priorità

La prima cosa da fare è non lasciare alla Cina campo libero negli investimen­ti

sche di ras locali corrotti, signori della guerra e simili. Lo sviluppo non dipende dagli «aiuti allo sviluppo», comunque definiti e mascherati. Dipende dall’esistenza di istituzion­i (sociali, economiche, politiche) locali solide, in grado di generare ordine: quell’ordine che serve alle persone per intraprend­ere, lavorare, investire i propri risparmi, eccetera. Il problema però è che nessuno sa bene come si fa a costruire istituzion­i solide là dove non esistono. Nell’attesa di scoprirlo, quello che gli europei possono fare per l’africa (e quindi per se stessi) è non lasciare alla Cina campo libero negli investimen­ti. Conviene ai Paesi europei scommetter­e sul futuro dell’africa e investirvi molte risorse. Per un vantaggio a breve scadenza: ampliare la propria presenza in un mercato in espansione. E per un vantaggio a lungo termine: tutelare la società aperta europea.

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