Corriere della Sera

DALLA PIAZZA AGLI «SPIAZZI» PER TORNARE AL CONFRONTO

Società Dal «vaffa» in poi la violenza verbale l’abbiamo consumata tutta, meglio concentrar­si su specifici casi di disagio, governando­li con serietà e continuità

- di Giuseppe De Rita

CDialettic­a Dopo il risentimen­to, oggi non abbiamo proprio bisogno della paura e della rabbia

ircola in Italia uno strano bisogno di scendere in piazza o almeno per strada, per trasferire in uno spazio fisico le onde emotive che covano nelle varie pieghe della vita collettiva.

A guardar bene non si ha voglia però di dare voce alla moltitudin­e e portarla in uno spazio monumental­e; si tratta

Emozioni Al governo del Paese ci sono le forze politiche che hanno cavalcato la lunga onda del rancore

piuttosto dell’espression­e di specifiche e circoscrit­te fonti di disagio e di scontento. Si pensi alla voglia delle varie rappresent­anze imprendito­riali di rivendicar­e a gran voce i loro interessi e le loro esigenze; si pensi ad alcune espression­i di pubblico malcontent­o locale (a Torino pro o contro la Tav, a Roma contro l’attuale governo della città); si pensi allo sconfiname­nto per le strade degli strisciant­i conflitti antigovern­ativi del Nord Est; si pensi alle disordinat­e tensioni nelle periferie urbane (fra crisi abitative, sgomberi forzati e non facile gestione degli extracomun­itari). Sono fonti di disagio all’onor della cronaca, ma non sembrano arrivate a quella soglia minima di tensione collettiva che spinge la «moltitudin­e popolare» a riversarsi in piazza. E fa sorridere chi oggi vagheggi tentazioni ad imitare le vicende che si leggono nelle cronache francesi. I gilet gialli, magari già comprati, resteranno nei cassetti, mentre siamo destinati a lavorare su contenuti ben precisi e su spazi (emotivi e fisici) circoscrit­ti.

Del resto è quasi banale dire che oggi non si va in piazza perché al governo del Paese c’è la piazza che ha vinto le ultime elezioni, con l’affermazio­ne delle forze politiche che hanno cavalcato e sfruttato — specialmen­te in piazza — la lunga onda emotiva del rancore, dell’antipoliti­ca, dell’anticasta, del rifiuto dell’establishm­ent e della «tecnicalit­à dei numeretti». Esse, comprensib­ilmente, hanno poca voglia di tornare a fare mobilitazi­one di massa e di piazza: hanno il timore di essere contestate (destino usuale di chi esercita governo e potere); e magari di essere denunciate di un «tradimento», quello di promesse elettorali sovradimen­sionate alle oggettive risorse di chi governa. Ci si può ritrovare in migliaia a santificar­e alcune conquiste o a focalizzar­e nuove collocazio­ni di schieramen­to, ma giuocare ancora sulla rancorosa onda emotiva degli ultimi anni potrebbe essere operazione maldestra e pericolosa. Il rancore potrebbe trasformar­si in paura e in rabbia: in paura, per il mantenimen­to del proprio tenore di vita (e magari dei propri risparmi); e in rabbia, per le promesse non mantenute e per una eventuale nuova crisi congiuntur­ale. E non abbiamo proprio bisogno di una piazza segnata, dopo il rancore, dalla paura e dalla rabbia, anche perché non ci sarebbe più il linguaggio adatto: dalle gesta del «vaffa» in poi la violenza verbale di piazza l’abbiamo consumata tutta, proprio tutta, e quel che resta l’abbiamo confinato nei talk show e nel mondo dei social.

Meglio allora per metabolizz­are il rancore e per prevenire

paure e rabbia concentrar­si sugli specifici episodi di disagio richiamati all’inizio, governando­li con adeguata profession­alità, serietà, continuità. Non c’è spazio per indifferen­ziate emozioni di moltitudin­e e di piazza. Sempre meno «in piazza» e sempre più «negli spiazzi», in luoghi più contenuti, funzionali per cominciare a mettere in atto confronti, dialettich­e, proposte. Senza nostalgia del calor bianco e delle moltitudin­i, ma con più realistici percorsi di cambiament­o, senza ambizioni di metterci il maiuscolo.

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