Janácek, scenografia essenziale per punire un adulterio
Apparizioni sporadiche a Montepulciano (prima assoluta di Pollicino di Henze), Bologna e Firenze nei decenni scorsi non rendono onore in Italia alle qualità di Willy Decker, regista tedesco noto ai più per la memorabile Traviata salisburghese che rivelò Anna Netrebko nel 2005.
Doppio merito dunque al Teatro di San Carlo: per aver proposto Kát’a Kabanová di Janácek in tempi di cartelloni governati dalle necessità di botteghino; e per avere allestito una superba produzione approntata appunto da Decker.
Kát’a Kabanová è la storia di una donna prigioniera, come uccello in gabbia, non solo di soffocanti leggi famigliari (quelle della Russia dei mercanti di fine ’800) ma anche e soprattutto del senso di colpa per l’unica trasgressione che le fosse possibile attuare, l’adulterio: una trasgressione non perdonata dalla «comunità» e che la indurrà al suicidio. La messinscena di Decker racconta ciò con un’intensità teatrale proporzionale alla superba essenzialità della scena. Si tratta di un soffocante spazio ligneo senza finestre cui si accede da porte invisibili. Fanno il resto il rigoroso dominio delle luci e la qualità estrema di una recitazione di gesti rappresi a loro volta in un’essenzialità che irrigidisce. Che nega appunto non solo la possibilità ma persino il desiderio di «volare». Spazio fisico e spazio psichico sono un tutt’uno. Tale macchina scenica amplifica peraltro magnificamente il recitativo melodico che caratterizza la scrittura vocale di Janácek. E rende giustizia al grado di lirismo di questa partitura del 1921, talmente alto che si è quasi sfiorati dal dubbio di uno Janácek più compiaciuto che nelle altre sue opere.
Di fronte a spettacoli del genere non ha senso distinguere voci e presenza scenica degli interpreti. Sono tutti bravi, a partire dall’eccellente protagonista Pavla Vykopalová. Persino la voce usurata della vecchia gloria Gabriela Benacková è perfetta per la parte di Marfa, suocera infida, nonché giudice e carceriera di Kát’a, mentre Misha Didyck (Boris, l’amante) fatica negli acuti ma regge l’urto di una scrittura infida. Elogi per i comprimari Sergey Kovnir, Ludovit Ludha e Lena Belkina. Ottima la prova di Juraj Valcuha, direttore d’orchestra che conosce questa musica e il suo stile antimelodrammatico come pochi altri. Applausi scroscianti.