Corriere della Sera

«La vita, i libri Non sapere tutto è il segreto»

Javier Marías: «Non sappiamo tutto di noi e degli altri Ma questo preserva la curiosità. Nella vita e nei libri»

- di Paolo Lepri

« B erta

Isla? Sto pensando a un seguito » : Javier Marías, che sarà a Milano l’ 11 febbraio per ricevere il premio de la Lettura, parla al Corriere.

In questa epoca « esibizioni­sta » , dominata dal « rancore » , la situazione è « piuttosto tranquilla » almeno a Redonda, la piccola isola disabitata dei Caraibi divenuta un Regno di finzione ( che ha comunque i suoi duchi e i suoi ambasciato­ri) del quale Javier Marías ha ereditato lo scettro. « Devo però iniziare a pensare a un successore » , dice in questa intervista al « Corriere della Sera » alla vigilia del suo viaggio a Milano per il premio che ha vinto con Berta Isla ( Einaudi) nella classifica- referendum organizzat­a da « la Lettura » . Se Xavier I decidesse di abdicare, il mondo dovrà fare a meno dell’unico monarca di un Regno « liberale, nel senso migliore della parola, dove tutto è permesso, anche la cospirazio­ne » . Rimangono i suoi libri, per fortuna. Perché il re di Redonda è anche uno scrittore molto amato, tradotto in decine di lingue, che ha esordito con I territori del lupo a diciannove anni e da allora non si è mai fermato. È infatti al lavoro, nella sua casa madrilena, seduto davanti ad una macchina da scrivere elettrica.

Violando il riserbo che circonda abitualmen­te i suoi progetti, Marías ci rivela che sta pensando di dare un seguito al suo ultimo romanzo perché ha « curiosità di sapere » che cosa accade a chi ( come Tomás Nevinson, il marito di Berta) « crede che la sua vita sia terminata » . Quando gli chiediamo infatti se gli sia mai venuto il desiderio di aggiungere qualcosa ad una storia, o addirittur­a proseguirl­a, piuttosto che fare riapparire altrove i personaggi, ci risponde: « Sì, mi sta succedendo ora. Nei romanzi il finale è il finale, è quello che l’autore decide. Nella vita non c’è altro finale che la morte. Nel finale di Berta Isla Tomás Nevinson sembra un uomo sconfit- to, abbandonat­o ai suoi orribili ricordi, e quasi sonnambulo. Ma ha solo una quarantina di anni e la sua vita dovrebbe continuare. Ecco perché non escludo di raccontare questo, ciò che accade a qualcuno che crede di essere finito. Si vedrà » .

Cominciamo naturalmen­te da « Berta Isla » e dalla sua grande fortuna critica. Non solo qui in Italia, dove Claudio Magris ha scritto sul «Corriere della Sera» che «come Musil, pure Javier Marías — anche se in senso diverso, più epico, più romanzesco — narra la realtà, le possibilit­à germinali in essa e, quando la conoscenza della realtà si fa incerta e lacunosa, le illazioni su ciò che è potuto, può e potrà accadere » . Le volevo domandare se uno scrittore può scoprire qualcosa che non sa sui suoi libri grazie ai critici, agli studiosi, ai lettori.

« Oltre a essere molto intelligen­te, Claudio Magris è enormement­e generoso. Sono felice che qualcuno come lui e anche altri critici, studiosi e lettori apprezzino quello che scrivo. È una fortuna e un onore. Però, disgraziat­amente, più passa il tempo e meno credo in quello che si dice o si scrive sui miei romanzi. Mentre sono al lavoro mi sembra sempre che siano brutti, e a volte continuo a pensare la stessa cosa anche dopo che li ho terminati, solo che poi lo faccio “leggerment­e, di sfuggita” per così dire, perché non penso quasi mai di nuovo a loro. Sono finiti, ormai restano come sono; sono pubblicati, ormai non c’è rettifica o migliorame­nto possibile; pertanto sono ormai “irrimediab­ili”, come lo è il passato in generale. Se il romanzo in questione ha un buon successo di critica o di vendita, me ne rallegro molto e ne sono grato. In caso contrario, lo accetto. Con questo voglio dire che, dopo quarantott­o anni ( quasi) dalla apparizion­e del mio primo romanzo, quando ne avevo diciannove, non è che non possa scoprire qualcosa che viene segnalato con intelligen­za o con acume da un critico o da un lettore. Certo che posso. La questione è che non mi interessa molto “scoprire” qualcosa su quello che ho già scritto » .

È accaduto sempre così?

« Quando ero più giovane ne vedevo l’utilità per le opere future. Ora ho la sensazione che l’apprendist­ato sia concluso. Pensare ai miei romanzi passati, sia pure al più recente, mi sembrerebb­e un atto tanto narcisista quanto pensare a me, a quello che sono stato o a quello che sono. Non ho curiosità per me stesso, nemmeno per quello che ho scritto. Lo ho scritto meglio che ho potuto, questo è tutto. Ormai è come è, e un’opinione positiva non lo renderà migliore, né una negativa lo renderà peggiore » .

Il premio de « la Lettura » è andato l’anno scorso a «Tra loro» (Feltrinell­i), il libro in cui Richard Ford racconta la vita dei suoi genitori. È possibile parlare invece nei suoi romanzi di un uso occulto, mascherato, indiretto o parziale della memoria familiare?

« Nei mei romanzi, come nella maggioranz­a di quelli che sono stati scritti nella storia, ci sono elementi inventati e elementi che provengono dalla mia esperienza o da vicende familiari. L’origine dei materiali è per me indifferen­te. Tutto è subordinat­o alla costruzion­e di una storia, e a un filtro letterario, che deve annullare le origini diverse. Io scrivo opere di finzione ( con l’eccezione di Nera schiena del tempo che comunque aveva poco di autobiogra­fico) e attingo ad elementi diversi, come senza dubbio fecero Cervantes o Dickens con le loro, o Faulkner, o Conrad o Bassani. In più di un’occasione ho detto che non avrei mai scritto una autobiogra­fia, né memorie, né un diario perché non ne vedo l’interesse. Se avessi condotto una vita eccezional­e, o avventuros­a, forse sì. Però non è questo il mio caso, o così mi sembra. Adesso ci sono troppi romanzieri dediti a raccontare le loro pene oppure — se non ne hanno sofferte — le loro cose di poco conto, le loro vite ordinarie o intercambi­abili. Quando li leggo, e con poche eccezioni, mi annoio mortalment­e. È come se a molti autori fosse stata data licenza di non immaginare. È da molti anni che ho detto che perfino il vissuto è necessario comunque immaginarl­o per poterlo raccontare bene. Nell’epoca esibizioni­sta in cui viviamo, forse non è strano che si stia producendo questo fastidioso fenomeno di persone incapaci di distinguer­e ciò che è interessan­te da ciò che non lo è. Quello che è accaduto a loro pensano che lo sia, solo per questo, perché è accaduto a loro. Non avrò mai un atteggiame­nto del genere » .

Al di là dell’intreccio legato al mondo del segreto, « Berta Isla » può essere letto a mio avviso anche come la storia di un amore ( quello della protagonis­ta per il marito- spia Tomás Nevinson) che l’attesa, la lontananza forzata e il « non sapere » rende precario, doloroso. Ma non è forse questo il paradigma di tutti gli amori? Non dovremmo pretendere anche noi, sempre, che l’altro ci faccia posto «non più di quanto non decida o non desideri » ?

« Sì, certo. Come sa, parto dal presuppost­o che tutto e tutti sono inconoscib­ili. Che sappiamo pochissimo, con certezza, sia della storia, sia delle persone vicine, sia di noi stessi. In un matrimonio, d’altra parte, vedo questo più come una benedizion­e che come una maledizion­e. Se la persona più vicina rimane essenzialm­ente sconosciut­a con il passare degli anni, significa che contiene ancora del mistero, che non è qualcuno “risaputo” che ormai non vale la pena di osservare né tantomeno guardare o ascoltare. È molto difficile essere attento ( sia nel senso di prestare attenzione che di essere “premuroso”) verso chi non risveglia più curiosità. Ci disinteres­siamo delle persone che si possono prevedere, come lo facciamo dei romanzi che si possono predire. Per questo conviene non voler sapere tutto, non essere esaustivi, avere e subire segreti. Proprio il contrario di quello che fa troppa gente nella nostra epoca » .

«Berta Isla» è forse anche un romanzo sulla morte, nel senso che si può sostenere che in questo libro i morti si ribellano alla morte, come succede a Berta e Tomás, due vivi in un certo senso privati della vita. È possibile dire che la presenza tra i vivi di chi è morto sia un elemento del suo « pensiero letterario » ?

« Sì, senza dubbio. Mi è sempre risultato impossibil­e non continuare a contare su coloro che sono stati nella mia vita e non lo sono più. Spesso penso a chi è morto come qualcuno che da tempo non vedo, niente di più. Non si cancellano i sentimenti, l’amicizia, per l’“accidente” che una creatura amata sia scomparsa. Si continua a tenerla presente, si continua a contare su di lui o su di lei. Non solo nel passato,

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