Nei panni (rubati) degli altri
Storie di famiglie intrecciate, di identità spezzate, di odio e intolleranza nel romanzo di Cinzia Leone
L’esordio di questo romanzo di Cinzia Leone è tremendo, mozzafiato, sembra una rocambolesca scena cinematografica: agguato notturno, bastonature a morte, gambe spezzate, timpani fracassati, un’intera famiglia massacrata senza pietà, il padre — già scampato a un pogrom a Odessa —, la madre, la figlia che piange disperata prima di essere uccisa a colpi di spranga. È peggio di un pogrom in cui si spara nel mucchio, quello che annienta una famiglia di ebrei nella Giaffa del 1936. È un’esecuzione mirata che mette fine alla vita di Avrahàm Azoulay, per di più condotta con una ferocia smisurata. Si sentono i tonfi, le urla, i lamenti, gli ultimi gemiti prima di spirare. Si percepisce il terrore. Il terrore del vicino, il musulmano Ibrahim, che ha una moglie che si chiama Miriam, proprio come quella di Avrahàm, e una figlia proprio della stessa età della bambina che sta morendo sotto i colpi dei carnefici. Ed è il terrore che dà vita a una storia di identità rubate, di vite spezzate e ricostruite, di fughe, di ritrovamenti imprevedibili. Di fughe da sé stessi, di itinerari esistenziali che si intrecciano e che si scontrano, di religioni, e di credi e di riti, che si mescolano in un mondo confuso e caotico, ma terribilmente vitale. Angoscioso ma avventuroso. Dove anche il lettore non sa più con chi ha a che fare, quali panni deve indossare, con chi deve trepidare, con Avrahàm o con Ibrahim, con Miriam la musulmana oppure Miriam l’ebrea, o con tutte e due. E poi fino ai nostri giorni, con Giuditta, o con Esther, o con Ruben. Una giostra frastornante di vite rubate. E infatti Ti rubo la vita è il titolo obbligato del romanzo di Cinzia Leone pubblicato da Mondadori.
Chi legge questo libro ha subito la sensazione di respirare un’aria diversa da quella che ammorba il tinello angusto ed asfissiante in cui spesso, per mancanza di immaginazione o per furioso e smisurato egocentrismo, si rifugia la nostra letteratura. Si viaggia con la mente e con l’ansia di sapere dove si va a finire da Giaffa a Istanbul, nelle cui strade si sentono ancora i contraccolpi della grande rivoluzione laicista e anti-integralista dei «Giovani Turchi» di Atatürk, e poi Alessandria d’egitto, e poi Gerba, «l’anticamera di Gerusalemme», dove Ibrahim (o Avrahàm? No, Ibrahim. Anzi, Avrahàm. O tutti e due. nessuno dei due) incontra l’ebreo anarchico italiano Davide Cohen, che racconta come in quegli anni nel cuore dell’europa si stia preparando un altro gigantesco, catastrofico, incommensurabile pogrom. E poi Basilea, e poi Miami. E il sionismo temprato nella missione generosa ambientata in un kibbutz. Per poi tornare con Giuditta qualche anno dopo a Roma, con il rastrellamento nazista del Ghetto il 16 ottobre del 1943, e un po’ di decenni dopo con Esther, figlia di un matrimonio tra un cristiano e un’ebrea, e con Ruben, che porta nuovamente la rotta del romanzo verso Tel Aviv, con un’agnizione finale che riannoda i multiformi fili di una storia che sembrerebbe non aver mai conclusione. Perché la storia di Cinzia Leone è aperta come sono aperte, ambigue, molteplici, cangianti, le identità, fragili e coriacee insieme, dei suoi protagonisti, di tutti i suoi protagonisti. Un pezzo di noi che si incolla malamente con un altro pezzo, in un profluvio di contraddizioni. Identità usurpate.
Identità abusive, come quelle che si dispiegano nelle pagine di questo romanzo. Identità che si forgiano nella persecuzione, ma che a loro volta plasmano il mono do con l’ingegno, con l’inganno, con l’impostura. Ci sono molti cattivi in questo romanzo, a cominciare dagli assassini che massacrano una famiglia di ebrei a Giaffa nel 1936, quando le tensioni tra arabi ed ebrei, ben prima della proclamazione dello Stato di Israele, stavano già raggiungendo vertici di atrocità e di ostilità assoluta, per finire con i responsabili dello sterminio del popolo ebraico. Ma è difficile individuare i «buoni», se per bontà si intende purezza, integrità, coerenza. Nessuno in queste pagine è un angelo. E nella storia delle famiglie si nascondono episodi oscuri, genealogie incerte, mescolanze sospette. Saper indossare gli abiti di un’altra persona è spesso considerato sinonimo di ammirevole empatia («mettiti nei suoi panni») e infatti spesso lo è. Ma può essere anche, e questo romanzo lo racconta molto bene, la condizione per assumere identità false, inautentiche. Si ruba la vita altrui, vivendo una vita che non è la tua: vite che non sono la mia.
Ma nelle vicende e nelle vicissitudini di una storia piena di tormenti i confini si smarriscono, il tuo e il mio che appartengono al profondo di una personalità danno vita a un’esistenza movimentatissima sì, e tuttavia piena di equivoci e di oscurità che si tramandano per generazioni. E infatti la storia raccontata in Ti rubo la vita ha per protagonista principale e primario non un intellettuale, ma un mercante. E il dio dei mercanti, nella mitologia antica, era anche il dio dei bugiardi, della molteplicità mercuriale, del cambiamento vorticoso.
C’è poi, nelle pagine di questo romanzo di Cinzia Leone, la tragedia di chi non vuole cambiarla, la propria identità, di chi vuole tener fede e sé stessa, come Miriam: Miriam la musulmana che non vuole diventare Miriam l’ebrea e comincia a nutrire un sentimento di odio e rancore infinito, fino alla morte, per chi la vuole costringere ad essere altra rispetto a sé stessa. È la grande storia della renitenza, della resistenza interiore vissuta fino alle estreme conseguenze. E il dolore di chi si era calato nei panni di un’altra identità senza mai saperlo, a sua insaputa, e si ritrova con un altro Io, antitesi di quello precedente. Le vite rubate provocano una cascata di conseguenze, e la penna di Cinzia Leone è capace di tenerle insieme, con una coerenza narrativa che dà ordine dove sembra regnare il caos. Ma non è caos, è solo un mondo complicato.
Ci sono molti cattivi in questa narrazione, ma è anche difficile individuare i buoni