Ergastoli per le stragi in Tunisia L’ira dei familiari delle vittime
I parenti dei turisti uccisi al museo del Bardo: ancora troppi punti oscuri
In memoriam: dopo quasi quattro anni, oggi al Museo del Bardo c’è una lapide con quell’epigrafe latina, due mani che si stringono, una colomba di pace e l’elenco dei 22 uccisi. Ad iustitiam: dopo un anno e mezzo, ieri al tribunale di Tunisi e sotto questa scritta latina, i giudici hanno letto la condanna di chi fece la strage. O per lo meno, dei complici: tre ergastoli e detenzioni varie, dai sedici anni ai sei mesi, nessuna pena di morte.
Un processo rapido, anche troppo: dieci udienze. Una procedura strana, che ha collegato il massacro del 28 marzo 2015 a quello di Sousse (tre mesi più tardi, 38 turisti ammazzati), per il quale sono stati inflitti altri quattro ergastoli. Mischiando un po’ pere con mele, imputati e conniventi. E per due sole ragioni: entrambi gli attacchi furono dell’isis e vennero organizzati da Shamseddine Al Sandi, fuggito in Libia e lì seccato (pare) in un raid Usa del 2016. «Il processo s’è tenuto in condizioni improbabili — protesta un legale delle vittime, Gerard Chemla —: non s’è capita la solidità dell’accusa, il movente e, in definitiva, chi ha fatto cosa».
Ci sono state 27 assoluzioni, gente trascinata in aula solo perché follower di Al Sandi sui social, mentre una ventina di fiancheggiatori sono stati rilasciati prima del processo. Alla fine, poco è emerso sulla cellula del Bardo: chi passò a un «tranquillo» operaio di 33 anni, Mahmoud Kechouri, le mappe dettagliate del Parlamento (primo obbiettivo dell’attacco) e del museo? Chi fece rientrare in sicurezza dalla Siria Jaber Khachnaoui, uno dei killer? E come fece a sparare con tanta precisione Yassine Laabidi, che era imbottito di droga e in pochi minuti colpì più di 50 persone? Per avere altra giustizia, gli inglesi si stanno facendo un loro processo a Londra. Per avere un po’ di chiarezza, i familiari dei morti francesi hanno ottenuto dai tunisini di seguire le udienze in videoconferenza da Parigi: «Un modo — hanno spiegato — per essere riconosciuti come vittime». Niente del genere è stato fatto per la memoria di Orazio Conte, Francesco Caldara, Antonella Sesino e Giuseppina Biella, i turisti italiani uccisi al Bardo. A Torino, c’è un processo civile contro la società che organizzò la crociera e dalla cui nave i quattro sbarcarono: la famiglia di Antonella ha rifiutato 150mila euro di risarcimento, ha perso e s’è vista pure condannata a pagare 30mila euro di spese processuali. «Andremo in appello — dice il difensore, Renato Ambrosio —, Tunisi era un posto pericoloso e dimostreremo che i turisti andavano allertati». Come? «Lo disse all’epoca anche il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni: abbiamo chiesto che venga a testimoniare».