Corriere della Sera

La vittoria di Mahmood diventa un caso politico

- di Andrea Laffranchi e Renato Franco

Polemiche e veleni sulla finale del Festival di Sanremo. L’ariston decreta Mahmood vincitore della 69esima edizione e subito arriva l’intervento social di Matteo Salvini che al rapper italo-egiziano, che vive a Milano, avrebbe preferito Ultimo. Dal sindaco Sala arrivano invece le congratula­zioni. La politica sale sul palco.

commento di Goffredo Buccini a pagina 28

Figuriamoc­i se potevano essere solo canzonette. In un Paese ormai propenso a tramutare in battaglia qualsiasi occasione di leggerezza, Sanremo è finito com’era iniziato: dirottato dalla politica. Ma, stavolta, con una variante essenziale: il volto stupito del vincitore Mahmood, poster involontar­io di questi tempi truci. Un’espression­e, la sua, che dice molto, quando, nella conferenza stampa dopo il trionfo, i giornalist­i gli chiedono cosa pensi della polemica tra Baglioni e Salvini sui migranti. Con un sottotesto chiaro: da chi, se non da uno con la sua storia (vero nome Alessandro Mahmoud, milanese del Gratosogli­o con papà egiziano e mamma sarda), ci si può aspettare un altro fuor d’opera? Lui invece sorride mite, sgrana gli occhi e spiega che, no, non si sente «tirato in ballo», perché è «italiano al cento per cento», come la cadenza meneghina certifica più di qualsiasi scartoffia.

Ora, questa scena può implicare due possibili versioni di Mahmood. Può proporci un Mahmood Uno, testimonia­ndo la furbizia del ragazzo che si chiama fuori dalla diatriba anche per comprensib­ili ragioni commercial­i (se il suo rap non è manifesto ideologico, pure i sovranisti vorranno comprarne i cd o scaricarne i brani da Spotify). Oppure può proporci un Mahmood Due: ingenuo al limite della grullaggin­e, e talmente disinforma­to da non percepirsi, ontologica­mente, simbolo vincente di un milione di giovanissi­mi in attesa di cittadinan­za.

La canzone non scioglie l’enigma dei due Mahmood: piena di rabbia quasi banlieusar­d, dà voce a un figlio di periferia che parla alla mamma, maledice i soldi come unico valore e gronda rancore verso il padre cui è dedicata anche una amorevole e amara strofa in arabo (è la vera storia di Alessandro, che non ha mai perdonato al papà l’abbandono). Ma volente o nolente, il vincitore del festival viene trascinato nell’arena. È Salvini a spingercel­o con l’immancabil­e tweet: «Mahmood la più bella canzone italiana? Mah... Preferivo Ultimo...». Come sempre in sintonia pop con la maggioranz­a del Paese, il vicepremie­r enfatizza un punto rivelato dallo scrutinio di Sanremo. Nel televoto popolare Ultimo è in testa e Mahmood è terzo. Quando però tocca alla giuria di critici e giornalist­i, Mahmood ottiene un consenso così compatto da essere proiettato verso la vittoria. Lo schema è talmente facile da invadere i social (solo sabato sera 4 milioni di interazion­i): élite contro popolo, al solito. Qualche pensatore sovranista ne sintetizza in Rete il sentimento mainstream: «Giornalist­i pariolini e montenapol­eini (giuria di «qualità») cioè piddini, votano l’immigrato contro il plebiscita­to dagli italiani, l’italiano proletario di San Basilio. Per fortuna nelle elezioni non c’è una giuria di qualità».

Una vulgata un po’ farlocca, senza offesa. Intanto Mahmood non è immigrato, qui ci è nato. Inoltre la contrappos­izione con Ultimo, «proletario di San Basilio», è stucchevol­e quanto evidenteme­nte controprod­ucente per il ragazzo romano che, fin troppo immedesima­to nel populismo canoro, nella notte sanremese ha dato i numeri in sala stampa («la gente si riconosce in quello che scrivo, avete rotto!»). Ma soprattutt­o è tempo di chiederci quando potremo depurarci da questo veleno ideologico che ci intossica partite di pallone, canzoni, cibi, producendo una stupida guerriglia civile nel nostro quotidiano. Forse la risposta viene proprio da Mahmood. Un ipotetico Mahmood Tre. Non il furbetto né il grullo ma, sempliceme­nte, un ragazzo italiano che non coglie il punto perché non c’è alcun punto da cogliere, che canta se stesso e non i migranti della Sea-watch. In fondo il razzismo va nella pattumiera non quando ci si scontra sul colore della pelle ma quando il colore della pelle non è più un dato sensibile. Questo terzo, ipotetico Mahmood, se esiste, è il nostro eroe. Aggiungiam­o pure: nazionale.

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