La vittoria di Mahmood diventa un caso politico
Polemiche e veleni sulla finale del Festival di Sanremo. L’ariston decreta Mahmood vincitore della 69esima edizione e subito arriva l’intervento social di Matteo Salvini che al rapper italo-egiziano, che vive a Milano, avrebbe preferito Ultimo. Dal sindaco Sala arrivano invece le congratulazioni. La politica sale sul palco.
commento di Goffredo Buccini a pagina 28
Figuriamoci se potevano essere solo canzonette. In un Paese ormai propenso a tramutare in battaglia qualsiasi occasione di leggerezza, Sanremo è finito com’era iniziato: dirottato dalla politica. Ma, stavolta, con una variante essenziale: il volto stupito del vincitore Mahmood, poster involontario di questi tempi truci. Un’espressione, la sua, che dice molto, quando, nella conferenza stampa dopo il trionfo, i giornalisti gli chiedono cosa pensi della polemica tra Baglioni e Salvini sui migranti. Con un sottotesto chiaro: da chi, se non da uno con la sua storia (vero nome Alessandro Mahmoud, milanese del Gratosoglio con papà egiziano e mamma sarda), ci si può aspettare un altro fuor d’opera? Lui invece sorride mite, sgrana gli occhi e spiega che, no, non si sente «tirato in ballo», perché è «italiano al cento per cento», come la cadenza meneghina certifica più di qualsiasi scartoffia.
Ora, questa scena può implicare due possibili versioni di Mahmood. Può proporci un Mahmood Uno, testimoniando la furbizia del ragazzo che si chiama fuori dalla diatriba anche per comprensibili ragioni commerciali (se il suo rap non è manifesto ideologico, pure i sovranisti vorranno comprarne i cd o scaricarne i brani da Spotify). Oppure può proporci un Mahmood Due: ingenuo al limite della grullaggine, e talmente disinformato da non percepirsi, ontologicamente, simbolo vincente di un milione di giovanissimi in attesa di cittadinanza.
La canzone non scioglie l’enigma dei due Mahmood: piena di rabbia quasi banlieusard, dà voce a un figlio di periferia che parla alla mamma, maledice i soldi come unico valore e gronda rancore verso il padre cui è dedicata anche una amorevole e amara strofa in arabo (è la vera storia di Alessandro, che non ha mai perdonato al papà l’abbandono). Ma volente o nolente, il vincitore del festival viene trascinato nell’arena. È Salvini a spingercelo con l’immancabile tweet: «Mahmood la più bella canzone italiana? Mah... Preferivo Ultimo...». Come sempre in sintonia pop con la maggioranza del Paese, il vicepremier enfatizza un punto rivelato dallo scrutinio di Sanremo. Nel televoto popolare Ultimo è in testa e Mahmood è terzo. Quando però tocca alla giuria di critici e giornalisti, Mahmood ottiene un consenso così compatto da essere proiettato verso la vittoria. Lo schema è talmente facile da invadere i social (solo sabato sera 4 milioni di interazioni): élite contro popolo, al solito. Qualche pensatore sovranista ne sintetizza in Rete il sentimento mainstream: «Giornalisti pariolini e montenapoleini (giuria di «qualità») cioè piddini, votano l’immigrato contro il plebiscitato dagli italiani, l’italiano proletario di San Basilio. Per fortuna nelle elezioni non c’è una giuria di qualità».
Una vulgata un po’ farlocca, senza offesa. Intanto Mahmood non è immigrato, qui ci è nato. Inoltre la contrapposizione con Ultimo, «proletario di San Basilio», è stucchevole quanto evidentemente controproducente per il ragazzo romano che, fin troppo immedesimato nel populismo canoro, nella notte sanremese ha dato i numeri in sala stampa («la gente si riconosce in quello che scrivo, avete rotto!»). Ma soprattutto è tempo di chiederci quando potremo depurarci da questo veleno ideologico che ci intossica partite di pallone, canzoni, cibi, producendo una stupida guerriglia civile nel nostro quotidiano. Forse la risposta viene proprio da Mahmood. Un ipotetico Mahmood Tre. Non il furbetto né il grullo ma, semplicemente, un ragazzo italiano che non coglie il punto perché non c’è alcun punto da cogliere, che canta se stesso e non i migranti della Sea-watch. In fondo il razzismo va nella pattumiera non quando ci si scontra sul colore della pelle ma quando il colore della pelle non è più un dato sensibile. Questo terzo, ipotetico Mahmood, se esiste, è il nostro eroe. Aggiungiamo pure: nazionale.