Piacere, Niccolò. Blaise, piacere
L’arte dello Stato come scienza, Carlo Ginzburg fa incontrare Machiavelli e Pascal
Essendo mia intenzione, dichiara Niccolò Machiavelli all’inizio del capitolo XV del Principe, «scrivere cosa utile a chi la intende», sceglie di «andare dietro alla verità effettuale della cosa» piuttosto che «all’immaginazione di essa», poiché sa bene «che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara più presto la ruina che la preservazione sua». Due capitoli dopo puntuale è l’esemplificazione di questo passaggio dal principio generale alla deroga: «Era tenuto Cesare Borgia crudele, nondimanco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola in pace e in fede». A quell’avverbio machiavelliano dedica Carlo Ginzburg la sua ultima raccolta di saggi (Nondimanco. Machiavelli, Pascal, Adelphi).
E i politici del proprio tempo non erano per Machiavelli così diversi dai «grandissimi esempi» dell’antichità, come Mosè, Ciro, Romolo e Teseo. Intorno all’epico fondatore di Roma (VIII secolo a. C.) e al mitico eroe diventato re di Atene (XII secolo a. C.) si erano formate la tradizione romana e quella greca delle origini. Quanto a Ciro, era il creatore della monarchia persiana (500 a. C.). Machiavelli (1469-1527) si soffermava sulle «vie virtuose» che quei personaggi avevano percorso nell’acquistare i loro «nuovi principati». Innovatori del genere «per condurre l’opera loro bisogna che preghino» oppure «possono forzare». E nel secondo caso il pericolo che corrono è assai minore! «Di qui nacque che tutti i profeti armati vinsero, e li disarmati ruinarono».
L’esempio più di rilievo ma anche più spinoso è Mosè. Benché di lui «non si debba ragionare», essendo stato «un mero esecutore delle cose che gli erano ordinate da Dio», nondimanco l’autore del Principe sottolinea che pure quell’uomo, degno di ammirazione «per la grazia che lo faceva degno di parlare con Dio», avrebbe provato l’amarezza del fallimento se si fosse ridotto a profeta senz’armi. E Machiavelli aggiunge che tutto il contrario era capitato all’imbelle Girolamo Savonarola (14521498), il domenicano nativo di Ferrara che aveva reinstaurato la repubblica a Firenze, e ne aveva pagato il prezzo con il rogo.
Allora, come poteva Machiavelli spiegare il successo storico del Cristianesimo, essendo stato Gesù un «disarmato»? Osserva Ginzburg che l’importanza della domanda «è fuori discussione; ma trovare una risposta è forse impossibile. Machiavelli non si pronunciò mai sulla vittoria del Cristianesimo; si soffermò invece su ciò che aveva reso possibile la sua rigenerazione». Nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (Libro III, capitolo I) ricorda come san Francesco e san Domenico diedero alla religione cristiana nuova vita «nella mente degli uomini»; anzi, fecero sì che «la disonestà de’ prelati» non la rovinasse, con la conseguenza che questi ultimi «fanno il peggio che possono, perché non temono quella punizione che non veggono e non credono». Di questa «riflessione sarcastica e mordace», aggiunge Ginzburg, «avrebbe dovuto ricordarsi quel lettore di Machiavelli che pronunciò la battuta forse più stupida del ventesimo secolo: «Il papa? Quante divisioni ha il papa?». Il suo autore — per la cronaca Giuseppe Stalin — non aveva compreso «che virtù e forza possono essere anche immateriali», ma assai efficaci.
Qui entra in gioco Blaise Pascal (16231662), il matematico che aveva letto e meditato l’opera di Galileo Galilei. Dietro le considerazioni di Pascal, commenta Ginzburg, «si legge in controluce un passo della Lettera a Cristina di Lorena, pubblicata per la prima volta a Strasburgo nel 1636, in traduzione latina con testo italiano a fronte». Ora, «gran differenza è tra il comandare a un matematico, o a un filosofo, e il disporre un mercante o un legista»; così si era espresso Galileo, insistendo che «non si possono mutare le conclusioni dimo- strate circa le cose della natura e del cielo» con la stessa facilità con cui si cambiano «le opinioni circa quello che è lecito o no in un contratto, in un censo o in un cambio». Con Pascal tale distinzione, dice Ginzburg, «venne radicalmente rielaborata. La forza delle dimostrazioni necessarie di matematici e filosofi diventò, letteralmente, forza». Ma se «la giustizia è opinabile, la forza non lo è. Nelle leggi, nei commerci prevale la forza, travestita da giustizia». Pascal era stato duro, ma chiaro: «Non riuscendo a rendere forte il giusto, si è fatto giusto il forte».
Con l’affrontare l’intricato nesso tra ricerca scientifica e arte di conservare lo Stato sullo sfondo delle differenti istanze religiose, la riflessione di Pascal rimanda così ai conflitti di cui è intessuta la nostra stessa contemporaneità. Del resto, conclude Ginzburg, «la storia ha un senso per coloro che la fanno o credono di farla, mossi da strategie più o meno machiavelliane». Ma «non ha senso dal punto di vista delle stelle». Non è stata questa, dopotutto, una liberazione della scienza, come aveva compreso l’irruente e sfortunato Galileo?
L’avverbio machiavellico Borgia crudele? «Nondimanco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola in pace e in fede»
Il distinguo pascaliano
«Se la giustizia è opinabile, la forza non lo è. Non riuscendo a rendere forte il giusto, si è fatto giusto il forte»