Un piccolo decamerone in villa. E il padrone di casa...
Stefano Jacini riunisce in «Mefisto Valzer» (Bompiani) 12 figure eterogenee svelando poco a poco dove siano davvero capitate
Ilettori di Stefano Jacini sanno che, soprattutto da principio, ci vuole concentrazione e costanza per orientarsi nei suoi romanzi: a causa del numero dei personaggi, delle vicende che si accavallano e della fantasia che l’autore, pur non più così giovane, ha conservato particolarmente scatenata. Concentrazione e costanza che, però, vengono ricompensate dopo un certo numero di pagine quando la trama emerge chiara dopo l’iniziale e semiserio tentativo di confondere il lettore, almeno quello meno paziente. In altre parole, a chi si avvia nella lettura tocca una specie di esame di ammissione, una specie di astenersi i perditempo, vadano avanti soltanto i davvero motivati.
Lo stesso succede un po’ anche in questo suo più recente romanzo, Mefisto Valzer (Bompiani) dove ci si deve muovere con cautela per non smarrire il cammino, attenti a ogni frase per non perdere l’orientamento nella rigogliosa trama. Sappiamo di essere in un luogo elegante, una villa storica, riccamente arredata, piena di personale in livrea, governata da un molto efficiente maggiordomo agli ordini di un misterioso padrone di casa che, sebbene (forse) presente, non si manifesta mai.
Arrivano degli invitati, 12 per la precisione, portati fin lì da una carrozza, inviata dal solerte maggiordomo, tirata da cavalli neri, e se lì per lì il colore del manto dei cavalli pare un dettaglio di nessun conto, a suo tempo si capirà che, invece, è abbastanza significativo. Tra i 12 ci sono uomini e donne di differenti età (anche un bambino) e di differentissime professioni; una cantante d’opera, per esempio, un artista da circo, un ingegnere, un maestro di musica, un nobile senza particolare occupazione, due signorine di mezza età (e zitelle), una signora che non toglie mai gli occhiali da sole. Tutti, aspettando di venire presentati al padrone di casa, si chiedono per quale ragione si trovino alla villa. Per tenerli occupati nell’attesa, il maggiordomo chiede a ciascuno di loro di mettere in scena, nel teatrino della villa, una piccola pièce, e ce ne saranno di spiritose, di tristi, di paradossali, un decameroncino utile, ai dodici, per riempire il vuoto dei giorni; fattore di rischio, però, per il lettore, di smarrirsi nella doppia realtà.
Poi affiora la trama e si capisce, infine, dove ci si trova, chi è il misterioso padrone di casa e chi il suo maggiordomo, che cosa ci fanno gli ospiti arrivati nella carrozza trainata dai cavalli neri e, anche, chi sono i domestici in livrea. Il chiarore si fa strada, non all’improvviso, bensì un po’ alla volta, una lucina che si accende dopo l’altra. E sta qui il vero cuore della narrazione, qui dove l’autore affronta, con ironia, con leggerezza, perfino con frivolezza, e a testa alta si vorrebbe dire, il massimo tema dell’umanità, quello della morte. Del padrone di casa — ma davvero esiste? — non si sa dove sia finito. Resta a spadroneggiare il maggiordomo del quale in extremis si apprende il nome: Suleyman de Abissis.
Una trama rigogliosa L’autore prova a sviare il lettore con intrecci che si sovrappongono (con colpo di scena finale)