Thomas Wolfe, il ragazzo che aveva l’america dentro
Che cosa si salva, oggi, della sterminata omelia di Thomas Wolfe sull’america e sugli americani? Quali le sue attuali quotazioni? In genere lo si considera qualcosa di più d’uno scrittore importante e qualcosa di meno d’un grande scrittore. La differenza può sembrare piccola ma è sostanziale. Figlio del profondo sud come il suo quasi coetaneo William Faulkner, cui viene spesso avvicinato pur nella evidente diversità (anche perché capolavori come L’urlo e il furore faulkneriano non vanno a braccetto con niente e nessuno), Wolfe è stato in tutto e per tutto eccessivo. Era un ragazzone alto quasi due metri, sembrava costruito per durare cent’anni invece è morto nel 1938 appena trentottenne. Le sue opere narrative nascevano anzitutto da un bisogno ingenuo e grandioso di credere in se stesso e di documentare la vita attraverso fiumi di parole.
Trascurato dalla nostra grande editoria, portata a considerarlo un autore impervio, Wolfe (nella foto qui sotto) ha però di recente conquistato anche da noi un certo pubblico sciccoso con il film biografico Genius incentrato sul suo esasperato rapporto con Max Perkins. L’editore che l’ha fatto conoscere stampando i suoi torrenziali, straripanti testi dove narcisismo scatenato, autobiografia, schegge di romanzo, si fondono e vincono la scommessa dell’arte grazie a un’originalissima prepotenza creativa.
L’occasione per riparlare di questo maestro rimasto per tutta la vita un ragazzo viene adesso fornita da Via del Vento, una piccola casa editrice sensibile alle ragioni della cultura in barba alle prepotenze del mercato. In una sua collana, denominata «Ocra Gialla», di chicche per amatori ha infatti pubblicato tre brevi testi di Wolfe inediti per l’ Italia intitolandoli Il ritorno (pagine 43,
4) a cura di Francesco Cappellini (in uscita in questi giorni). Il più originale, quello che chiude questa plaquette destinata a una platea di laureati in letture da non perdere ancorché difficili, è un Prologo all’america. Gli danno vita sei «illuminazioni» che sconsiglierei comunque di definire flash. I loro titoli parlano da soli: Oh, Washington, Oh, Manhattan, Oh Boston, Oh, Chicago, Oh Montagne Rocciose, Oh Hollywood.
E qui bisogna citare Alfred Kazin, quella sua Storia della letteratura americana definita giustamente da Arbasino «formativa e leggendaria». A pagina 592 vi si legge: «Wolfe non celebrava l’america, come aveva fatto Whitman: cercava di trascriverla, di assimilarla, di ripeterla dentro di sé; e questa era la qualità e il carattere della sua esuberante energia, era l’origine della sua frenetica passione per tutti i dettagli della vita statunitense, di quel suo bisogno di riprodurli esattamente come sostanza della propria arte».