Corriere della Sera

Reggimento Sfigati

- di Massimo Gramellini

Per indagare sul rivoluzion­ario significat­o assunto dalla parola «sfigato», vi propongo un breve viaggio al termine della testa di una ragazza di Macerata. Ai carabinier­i che chiedevano le sue generalità (era stata testimone di una rissa) ha dichiarato di abitare in via 226° Reggimento Fanteria, specifican­do che si trattava di «quattro sfigati morti in guerra». Le hanno dato una multa per oltraggio ai caduti e pare ne sia rimasta stupita. Non avendo la sua cultura in materia, sono andato a verificare. Il 226° si immolò nelle trincee della Prima guerra mondiale. E di «sfigati» non ne perse quattro, ma tremila, in buona parte lungo la linea del Piave, durante la resistenza seguita alla disfatta di Caporetto.

Dai tempi delle Termopili, i soldati che si sacrifican­o per difendere i confini vengono chiamati eroi. Su di loro si scrivono poesie e canzoni di grande impatto popolare, benché ritenute retoriche dalle giurie di qualità. Ma anche per gli eroi la pacchia è finita: sono diventati dei poveri «sfigati». Per meritare la stessa patente di «fighi» che spetta ai cuochi e agli influencer, i fanti del reggimento avrebbero dovuto avere abbastanza soldi da potersi permettere una diserzione di lusso o un congedo illimitato. Il fatto che si trovassero a rischiare la pelle lontano da casa è la prova evidente che erano dei falliti. Per la ragazza di Macerata, e forse non solo per lei, dare la vita per gli altri è un privilegio riservato ai poveracci.

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