Chiamiamolo imprenditore (ce n’è bisogno)
Qualche anno fa il fondatore di Uber, Travis Kalanick, rispose così a chi gli chiedeva dei danni che stava creando alla mobilità tradizionale: «È difficile essere un disruptor senza essere un uomo molto cattivo». Usò, in realtà, un altro termine ma è bene censurarlo. Com’è noto Kalanick è stato poi cacciato dalla guida della sua stessa azienda. Si era preso troppo alla lettera. Per questo motivo non chiamiamo Davide Dattoli un disruptor, termine ormai entrato nella narrativa digitale per indicare chi è capace di cambiare i modelli di business spesso a dispetto di quelli più tradizionali. Primo perché per ora Dattoli, più che distruggere, ha creato posti di lavoro e opportunità interpretando con la sua Talent Garden, prima e meglio di altri, la trasformazione culturale del mondo del lavoro: un’occupazione per molti versi con meno diritti e garanzie ma per altri con un grado di flessibilità, di mobilità e di accelerazione invidiabili. Secondo perché non siamo in quella bolla turbo-liberista e digitale di cui Uber è il fenomeno più lampante. Tra i punti di forza di Dattoli c’è stato proprio quello di non voler «copiare» la Silicon Valley ma di interpretare la nostra realtà socioeconomica. Ha funzionato visto che Talent Garden ha poi esportato il proprio modello all’estero: da Brescia con furore. Non chiamiamolo però nemmeno startupper: meglio imprenditore. In Italia «start up» — purtroppo — è diventato sinonimo di eterna promessa, di un’adolescenza aziendale troppo prolungata. Abbiamo bisogno di imprese vere, non di «start up» da rassicurare con una pacca sulla schiena. Dunque, è un bene che Forbes si sia accorta di Dattoli annoverandolo tra gli under 30 più influenti d’europa. Solo una cosa: noi ce ne eravamo già accorti. Da diversi anni.