Corriere della Sera

Chiamiamol­o imprendito­re (ce n’è bisogno)

- Di Massimo Sideri

Qualche anno fa il fondatore di Uber, Travis Kalanick, rispose così a chi gli chiedeva dei danni che stava creando alla mobilità tradiziona­le: «È difficile essere un disruptor senza essere un uomo molto cattivo». Usò, in realtà, un altro termine ma è bene censurarlo. Com’è noto Kalanick è stato poi cacciato dalla guida della sua stessa azienda. Si era preso troppo alla lettera. Per questo motivo non chiamiamo Davide Dattoli un disruptor, termine ormai entrato nella narrativa digitale per indicare chi è capace di cambiare i modelli di business spesso a dispetto di quelli più tradiziona­li. Primo perché per ora Dattoli, più che distrugger­e, ha creato posti di lavoro e opportunit­à interpreta­ndo con la sua Talent Garden, prima e meglio di altri, la trasformaz­ione culturale del mondo del lavoro: un’occupazion­e per molti versi con meno diritti e garanzie ma per altri con un grado di flessibili­tà, di mobilità e di accelerazi­one invidiabil­i. Secondo perché non siamo in quella bolla turbo-liberista e digitale di cui Uber è il fenomeno più lampante. Tra i punti di forza di Dattoli c’è stato proprio quello di non voler «copiare» la Silicon Valley ma di interpreta­re la nostra realtà socioecono­mica. Ha funzionato visto che Talent Garden ha poi esportato il proprio modello all’estero: da Brescia con furore. Non chiamiamol­o però nemmeno startupper: meglio imprendito­re. In Italia «start up» — purtroppo — è diventato sinonimo di eterna promessa, di un’adolescenz­a aziendale troppo prolungata. Abbiamo bisogno di imprese vere, non di «start up» da rassicurar­e con una pacca sulla schiena. Dunque, è un bene che Forbes si sia accorta di Dattoli annoverand­olo tra gli under 30 più influenti d’europa. Solo una cosa: noi ce ne eravamo già accorti. Da diversi anni.

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