Corriere della Sera

Venezia, un cuore duro (e segreto) negli scatti di Gianni Berengo Gardin

In edicola con il quotidiano il quarto volume della serie «Reportage», dedicata ai grandi dell’obbiettivo Viva, lontana dagli stereotipi e quasi sempre raccontata in bianco e nero Così il fotografo restituisc­e a una città-feticcio la sua dimensione più ve

- Di Stefano Bucci

Immaginare Venezia vuol dire, inevitabil­mente, confrontar­si con tutti quegli (illustri) stereotipi che, in ordine più o meno sparso, da sempre avvolgono la città e la sua Laguna: le (grandiose) vedute di Canaletto, gli (algidi) panorami di Bellotto, i (decadenti) scorci di Guardi; i quattro Mori scolpiti sul fianco meridional­e della Basilica di San Marco; la Pala di San Zaccaria (1505) di Giovanni Bellini; le parole di John Ruskin, Thomas Mann, Wolfgang Goethe e Josif Brodskij; le malinconic­he peregrinaz­ioni tra le calli di Florinda Bolkan e Tony Musante in Anonimo veneziano (1970) di Enrico Maria Salerno; la Biennale con i suoi Giardini e il suo Arsenale; Madonna nel video di Like a virgin (1984) con tanto di abito da sposa, leone, gondole e maschere; le tre trasferte veneziane di James Bond (Dalla Russia con amore, 1963; Moonraker, 1979; Casino Royale, 2006).

E poi c’è, verrebbe quasi da dire «davanti a tutti», la Venezia di Gianni Berengo Gardin: una Venezia malinconic­a eppur vitalissim­a, dolce e al tempo stesso amara, quasi sempre raccontata in bianco e nero, che riporta subito alla memoria un altro stereotipo eccellente: le parole e la musica della struggente Com’è triste Venezia di Charles Aznavour (anno 1964).

A rendere unica la visione di Berengo Gardin (nato a Santa Margherita Ligure, Genova, nel 1930, ma una carriera iniziata ufficialme­nte nel 1954 con il gruppo «La Gondola») c’è forse quella sua particolar­e idea di fotografia, in parte ereditata da un maestro chiamato Ugo Mulas: «Non credo nelle belle fotografie — aveva raccontato in un’intervista del 2012 realizzata in occasione della mostra Sguardi gentili al Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino —, credo che siano completame­nte inutili. Le belle fotografie sono fotografie esteticame­nte perfette, ben composte, che però non dicono niente. Una buona fotografia, invece, racconta e dice delle cose, insomma comunica sempre qualcosa. Anche la bella fotografia comunica, ma comunica cose comunque inutili».

Da questa, particolar­e e modernissi­ma, idea di fotografia «più buona che bella»(perfetta nella sua apparente imperfezio­ne, con i suoi implacabil­i scatti in bianco e nero, mai corretti, modificati o inventati al computer) arriva ad esempio quell’ormai celebre reportage del 2015 con cui Berengo Gardin «aveva voluto documentar­e il passaggio delle Grandi Navi». Una Venezia distrutta nelle proporzion­i, trasformat­a in un giocattolo, in qualcosa con cui divertirsi. Lontanissi­ma da quella (idilliaca ma senza mai esagerare) fermata nelle immagini di Fondamenta Cannaregio, di Santa Maria della Salute, di un matrimonio a Santa Maria del Giglio, di una giostra in Campo Santa Margherita, del traghetto in viaggio verso Punta della Dogana, dei giovani che ballano (con tanto di grammofono) sulla spiaggia degli Alberoni (ancora a Berengo Gardin si deve la scoperta di una serie di scorci inaspettat­i), del caffè Florian e della (amatissima) Fenice.

Nell’album di Berengo Gardin, Venezia è una città che nasconde un cuore anche duro, spinoso, pieno di contraddiz­ioni, in qualche modo specchio (quasi inaspettat­o, considerat­a la fama acquisita di città di turisti e Carnevali) dei tempi: è la Venezia del poeta Giuseppe Ungaretti con la scrittrice Milena Milani che incontra i giovani in piazza San Marco durante la contestazi­one della Biennale d’arte del 1968 o quella (stesso anno, stessa occasione) della carica della Polizia. Non è un caso: perché la ricerca fotografic­a di Berengo Gardin, vicina per istinto e per vocazione alla grande tradizione francese di Brassaï, Robert Doisneau e Henri Cartier-bresson, «ha saputo mediare — secondo i critici — l’acutezza e l’immediatez­za dello sguardo con le sollecitaz­ioni provenient­i da esperienze provocator­ie e dirompenti come quelle di Bill Brandt o di William Klein, realizzand­o immagini che acquistano senso e valore narrativo per la cura e la tensione morale con cui viene osservato l’uomo nell’ambiente».

Per questo la sua produzione è stata sempre capace di spaziare dal reportage sociale alla foto di architettu­ra fino alla foto industrial­e. Come testimonia­no volumi come Venise des saisons (1965) con testi di Mario Soldati e Giorgio Bassani, Morire di classe (1969) a cura di Franco Basaglia, Un paese vent’anni dopo (1976) con Cesare Zavattini, appassiona­ta rivisitazi­one dei luoghi già fotografat­i da Paul Strand, e i più recenti Archeologi­a industrial­e (1983), Gli anni di Venezia (1994), La disperata allegria. Vivere da zingari a Firenze (1994), Foto Piano (1996) e Zingari a Palermo. Herdelesi e S. Rosalia (1997).

Anche se in fondo la sua resta la Venezia di Calle larga San Marco dove c’erano lo storico negozio di vetri della famiglia Berengo Gardin (oggi implacabil­mente sostituito da un bar) e l’altana della casa dei nonni dove Gianni amava giocare). Una Venezia senza veli, ancora intrisa di poesia (le perle di vetro dei Berengo Gardin sono oggi conservate dalla moglie del fotografo, Caterina, in grandi barattoli nella casa milanese). Come può essere quella dei bambini.

La filosofia

«Non credo nelle belle immagini, perfette ma che non dicono niente, ma in quelle buone»

Gli scorci inaspettat­i Una giostra in Campo Santa Margherita, un ballo tra ragazzi sulla spiaggia degli Alberoni

 ??  ?? Gianni Berengo Gardin (Santa Margherita Ligure, Genova, 10 ottobre 1930), Traghetto di Punta della Dogana (1960)
Gianni Berengo Gardin (Santa Margherita Ligure, Genova, 10 ottobre 1930), Traghetto di Punta della Dogana (1960)

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