Venezia, un cuore duro (e segreto) negli scatti di Gianni Berengo Gardin
In edicola con il quotidiano il quarto volume della serie «Reportage», dedicata ai grandi dell’obbiettivo Viva, lontana dagli stereotipi e quasi sempre raccontata in bianco e nero Così il fotografo restituisce a una città-feticcio la sua dimensione più ve
Immaginare Venezia vuol dire, inevitabilmente, confrontarsi con tutti quegli (illustri) stereotipi che, in ordine più o meno sparso, da sempre avvolgono la città e la sua Laguna: le (grandiose) vedute di Canaletto, gli (algidi) panorami di Bellotto, i (decadenti) scorci di Guardi; i quattro Mori scolpiti sul fianco meridionale della Basilica di San Marco; la Pala di San Zaccaria (1505) di Giovanni Bellini; le parole di John Ruskin, Thomas Mann, Wolfgang Goethe e Josif Brodskij; le malinconiche peregrinazioni tra le calli di Florinda Bolkan e Tony Musante in Anonimo veneziano (1970) di Enrico Maria Salerno; la Biennale con i suoi Giardini e il suo Arsenale; Madonna nel video di Like a virgin (1984) con tanto di abito da sposa, leone, gondole e maschere; le tre trasferte veneziane di James Bond (Dalla Russia con amore, 1963; Moonraker, 1979; Casino Royale, 2006).
E poi c’è, verrebbe quasi da dire «davanti a tutti», la Venezia di Gianni Berengo Gardin: una Venezia malinconica eppur vitalissima, dolce e al tempo stesso amara, quasi sempre raccontata in bianco e nero, che riporta subito alla memoria un altro stereotipo eccellente: le parole e la musica della struggente Com’è triste Venezia di Charles Aznavour (anno 1964).
A rendere unica la visione di Berengo Gardin (nato a Santa Margherita Ligure, Genova, nel 1930, ma una carriera iniziata ufficialmente nel 1954 con il gruppo «La Gondola») c’è forse quella sua particolare idea di fotografia, in parte ereditata da un maestro chiamato Ugo Mulas: «Non credo nelle belle fotografie — aveva raccontato in un’intervista del 2012 realizzata in occasione della mostra Sguardi gentili al Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino —, credo che siano completamente inutili. Le belle fotografie sono fotografie esteticamente perfette, ben composte, che però non dicono niente. Una buona fotografia, invece, racconta e dice delle cose, insomma comunica sempre qualcosa. Anche la bella fotografia comunica, ma comunica cose comunque inutili».
Da questa, particolare e modernissima, idea di fotografia «più buona che bella»(perfetta nella sua apparente imperfezione, con i suoi implacabili scatti in bianco e nero, mai corretti, modificati o inventati al computer) arriva ad esempio quell’ormai celebre reportage del 2015 con cui Berengo Gardin «aveva voluto documentare il passaggio delle Grandi Navi». Una Venezia distrutta nelle proporzioni, trasformata in un giocattolo, in qualcosa con cui divertirsi. Lontanissima da quella (idilliaca ma senza mai esagerare) fermata nelle immagini di Fondamenta Cannaregio, di Santa Maria della Salute, di un matrimonio a Santa Maria del Giglio, di una giostra in Campo Santa Margherita, del traghetto in viaggio verso Punta della Dogana, dei giovani che ballano (con tanto di grammofono) sulla spiaggia degli Alberoni (ancora a Berengo Gardin si deve la scoperta di una serie di scorci inaspettati), del caffè Florian e della (amatissima) Fenice.
Nell’album di Berengo Gardin, Venezia è una città che nasconde un cuore anche duro, spinoso, pieno di contraddizioni, in qualche modo specchio (quasi inaspettato, considerata la fama acquisita di città di turisti e Carnevali) dei tempi: è la Venezia del poeta Giuseppe Ungaretti con la scrittrice Milena Milani che incontra i giovani in piazza San Marco durante la contestazione della Biennale d’arte del 1968 o quella (stesso anno, stessa occasione) della carica della Polizia. Non è un caso: perché la ricerca fotografica di Berengo Gardin, vicina per istinto e per vocazione alla grande tradizione francese di Brassaï, Robert Doisneau e Henri Cartier-bresson, «ha saputo mediare — secondo i critici — l’acutezza e l’immediatezza dello sguardo con le sollecitazioni provenienti da esperienze provocatorie e dirompenti come quelle di Bill Brandt o di William Klein, realizzando immagini che acquistano senso e valore narrativo per la cura e la tensione morale con cui viene osservato l’uomo nell’ambiente».
Per questo la sua produzione è stata sempre capace di spaziare dal reportage sociale alla foto di architettura fino alla foto industriale. Come testimoniano volumi come Venise des saisons (1965) con testi di Mario Soldati e Giorgio Bassani, Morire di classe (1969) a cura di Franco Basaglia, Un paese vent’anni dopo (1976) con Cesare Zavattini, appassionata rivisitazione dei luoghi già fotografati da Paul Strand, e i più recenti Archeologia industriale (1983), Gli anni di Venezia (1994), La disperata allegria. Vivere da zingari a Firenze (1994), Foto Piano (1996) e Zingari a Palermo. Herdelesi e S. Rosalia (1997).
Anche se in fondo la sua resta la Venezia di Calle larga San Marco dove c’erano lo storico negozio di vetri della famiglia Berengo Gardin (oggi implacabilmente sostituito da un bar) e l’altana della casa dei nonni dove Gianni amava giocare). Una Venezia senza veli, ancora intrisa di poesia (le perle di vetro dei Berengo Gardin sono oggi conservate dalla moglie del fotografo, Caterina, in grandi barattoli nella casa milanese). Come può essere quella dei bambini.
La filosofia
«Non credo nelle belle immagini, perfette ma che non dicono niente, ma in quelle buone»
Gli scorci inaspettati Una giostra in Campo Santa Margherita, un ballo tra ragazzi sulla spiaggia degli Alberoni