Il ritratto di una generazione che ha perso l’innocenza
aggia faticà’». Io devo lavorare: la frase che segna la svolta drammatica del film sintetizza perfettamente l’universo in cui si muovono tutti i personaggi di La paranza dei bambini, presentato ieri a Berlino e da oggi nei cinema. Lavorare per guadagnare, trasformarsi da «fottuto» a «fottitore» (vedi, ad esempio, la doppia visita al negozio di felpe e scarpe griffate), e quindi entrare nella logica della malavita, dello spaccio, del controllo del territorio, della legge delle armi. Altro tipo di lavoro non è contemplato, anche se evidentemente esiste (la madre del giovane protagonista fa la stiratrice, il mercato sotto casa dimostra che esistono modi diversi di «fatica’»). Ma per il gruppetto di amici del rione Sanità di Napoli l’unica possibilità è quella di iniziare la strada che dovrebbe portarli a diventare loro stessi boss. La forza del film diretto da Claudio Giovannesi, che ha adattato con Maurizio Braucci e Roberto Saviano il romanzo omonimo di quest’ultimo, è tutta qui (e non è certo poca!): dare concretezza e forza espressiva alla perdita dell’innocenza di una generazione, a quel codice identitario che spinge i giovani di Napoli a trovare la propria collocazione solo all’interno della lotta per il predominio. Iniziano così Nicola (Francesco Di Napoli) e suoi amici Tyson (Ar Tem), Biscottino (Alfredo Turitto), Lollipop (Ciro Pellecchia), O’russ (Ciro Vecchione) e Briatò (Mattia Piano Del Balzo): sfidando la legalità e dimostrando la loro supremazia. Che altro potrebbero fare quando i loro quindici anni li spingono a far bella figura con le ragazzine che frequentano i locali alla moda e si vestono griffate? Il loro «fatica’» non può essere altro che fare soldi più in fretta che si può. Ma nel film questo percorso non diventa mai luogo comune: c’è lo spaccio, la cocaina, le armi, l’ostentazione della ricchezza, ma diversamente da certa logica seriale che si regge sulla spettacolarizzazione, Giovannesi sembra passarci a fianco. Quello che gli interessa piuttosto è scavare nei comportamenti dei suoi ragazzi, mostrare la discesa verso un Male sempre più invasivo, un gradino dopo l’altro, sempre più giù. Perché il regista sta dalla parte dei suoi giovani anti-eroi nonostante tutto: nonostante i loro errori, nonostante la loro violenza, nonostante i loro miti sbagliati. Non li assolve, non li giustifica, ma ce ne mostra le ingenuità, le debolezze, i momenti di sorprendente candore (il litigio tra Nicola e il fratellino per le merendine). Il film sa fermarsi prima di cadere nel sociologismo (anche se è perfetto nel descrivere l’ambiente sociale in cui si muove), si tiene lontano dal meccanicismo causa-effetto, evita la retorica e il ricatto. Fateci caso: non ci sono «scene madri», discorsi magniloquenti o nemmeno programmatici. C’è solo lo squallore quotidiano di un mondo dove sono importanti i soldi e le armi. E dove il disordine morale non può che produrre violenza e morte.
Il Male invasivo Il film mostra la discesa verso un Male sempre più invasivo e rivela l’ingenuità di quei minorenni evitando il rischio della retorica