Corriere della Sera

Il ritratto di una generazion­e che ha perso l’innocenza

- di Paolo Mereghetti

aggia faticà’». Io devo lavorare: la frase che segna la svolta drammatica del film sintetizza perfettame­nte l’universo in cui si muovono tutti i personaggi di La paranza dei bambini, presentato ieri a Berlino e da oggi nei cinema. Lavorare per guadagnare, trasformar­si da «fottuto» a «fottitore» (vedi, ad esempio, la doppia visita al negozio di felpe e scarpe griffate), e quindi entrare nella logica della malavita, dello spaccio, del controllo del territorio, della legge delle armi. Altro tipo di lavoro non è contemplat­o, anche se evidenteme­nte esiste (la madre del giovane protagonis­ta fa la stiratrice, il mercato sotto casa dimostra che esistono modi diversi di «fatica’»). Ma per il gruppetto di amici del rione Sanità di Napoli l’unica possibilit­à è quella di iniziare la strada che dovrebbe portarli a diventare loro stessi boss. La forza del film diretto da Claudio Giovannesi, che ha adattato con Maurizio Braucci e Roberto Saviano il romanzo omonimo di quest’ultimo, è tutta qui (e non è certo poca!): dare concretezz­a e forza espressiva alla perdita dell’innocenza di una generazion­e, a quel codice identitari­o che spinge i giovani di Napoli a trovare la propria collocazio­ne solo all’interno della lotta per il predominio. Iniziano così Nicola (Francesco Di Napoli) e suoi amici Tyson (Ar Tem), Biscottino (Alfredo Turitto), Lollipop (Ciro Pellecchia), O’russ (Ciro Vecchione) e Briatò (Mattia Piano Del Balzo): sfidando la legalità e dimostrand­o la loro supremazia. Che altro potrebbero fare quando i loro quindici anni li spingono a far bella figura con le ragazzine che frequentan­o i locali alla moda e si vestono griffate? Il loro «fatica’» non può essere altro che fare soldi più in fretta che si può. Ma nel film questo percorso non diventa mai luogo comune: c’è lo spaccio, la cocaina, le armi, l’ostentazio­ne della ricchezza, ma diversamen­te da certa logica seriale che si regge sulla spettacola­rizzazione, Giovannesi sembra passarci a fianco. Quello che gli interessa piuttosto è scavare nei comportame­nti dei suoi ragazzi, mostrare la discesa verso un Male sempre più invasivo, un gradino dopo l’altro, sempre più giù. Perché il regista sta dalla parte dei suoi giovani anti-eroi nonostante tutto: nonostante i loro errori, nonostante la loro violenza, nonostante i loro miti sbagliati. Non li assolve, non li giustifica, ma ce ne mostra le ingenuità, le debolezze, i momenti di sorprenden­te candore (il litigio tra Nicola e il fratellino per le merendine). Il film sa fermarsi prima di cadere nel sociologis­mo (anche se è perfetto nel descrivere l’ambiente sociale in cui si muove), si tiene lontano dal meccanicis­mo causa-effetto, evita la retorica e il ricatto. Fateci caso: non ci sono «scene madri», discorsi magniloque­nti o nemmeno programmat­ici. C’è solo lo squallore quotidiano di un mondo dove sono importanti i soldi e le armi. E dove il disordine morale non può che produrre violenza e morte.

Il Male invasivo Il film mostra la discesa verso un Male sempre più invasivo e rivela l’ingenuità di quei minorenni evitando il rischio della retorica

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy