Sanremo, un piacere irrinunciabile tra momenti sublimi e trash
Ancora due o tre cose sul Festival di Sanremo, a mente fredda. La vittoria di Mahmood ha messo in luce il divario fra i voti espressi dal pubblico a casa e quelli delle due giurie «di qualità», i giornalisti della sala stampa e la giuria d’onore, che hanno ribaltato i risultati.
Ne è nato un vasto e ridicolo scontro tra popolo ed élite, tra gentismo e competenza. Senza entrare nel merito della «qualità», non dimentichiamo che i voti da casa possono essere pilotati e che i regolamenti vanno rispettati. A proposito di élite, un dato rilevante è che molti brillanti giornalisti trenta-quarantenni hanno seguito con passione il Festival, ne hanno scritto (il Foglio sembrava aver trasferito la redazione in Riviera), hanno alimentato i social. Persino seriose riviste accademiche hanno dato spazio a Sanremo.
Ma non era un vecchio carrozzone, la forza tranquilla della rassegnazione (la rassegnazione permette a certe forze di accrescersi indefinitamente), un trashissimo tranquillante sociale? Certo, è un piacere irrinunciabile commentare canzoni, outfit, gaffe, battute, scopiazzature, momenti sublimi e smottamenti nel trash via Twitter, ma la novità è che il Festival è ridiventato materia di sottili analisi, di metafore sociali, di riti liberatori. Insomma, Sanremo è ancora molto pop (passioni, pagelle, televoto, l’insanabile spaccatura tra i gusti musicali della Isoardi e quelli di Salvini…) ma anche molto chic, con un’attenzione particolare alla grammatica vestimentaria. Sanremo sceglie, indifferentemente, chi lo irride come chi lo venera.
Il primo Sanremo gialloverde, quello del cambiamento, è «musica» per le casse del servizio pubblico: 31 milioni dagli spot! Diminuirà il prelievo forzoso del canone o i volumi d’affari fanno gola a tutti? Il programma che Freccero non farà mai: su Rai1 il Festival, su Rai2 il reality della Sala Stampa, con televoto.