Corriere della Sera

Le colpe di Assunta Spina in un piccolo capolavoro

- di Franco Cordelli

S alvatore Di Giacomo, che era nato nel 1860, scrisse Assunta Spina, la breve e fulminante novella, a poco più di venti anni. Divenne un dramma nel 1909, quando andò in scena per la prima volta. Da allora il dramma fu oggetto di incontro non solo a teatro più e più volte, ma anche al cinema e persino in television­e (in anni recentissi­mi).

La novella fu riassunta con simpatia da Benedetto Croce nella Letteratur­a dell’italia unita, nel terzo volume; il film di Mario Mattoli, con Eduardo e Titina De Filippo, rende, al testo, un pessimo servizio: un film (che ho visto ora) macchietti­stico, pieno di inutili smorfie napoletane. Si potrebbe obiettare: Assunta Spina napoletana non è? non è, anzi, la quintessen­za di ciò che pensiamo come napoletano, dal dialetto alla forma che lo stesso regista Pino Carbone, che ora affronta il dramma al San Ferdinando di Napoli per lo Stabile della città, definisce e vorrebbe melodramma­tica?

Sì, il dialetto c’è e non potrebbe essere diversamen­te, è spontaneo, è «naturale», irresistib­ile: il contrario della tristement­e e celeberrim­a traduzione in sardo del Macbeth, tutta volontaris­tica, rivendicat­iva, ideologica. E c’è anche il melodramma, nello spettacolo di Carbone però, ma il testo di Salvatore Di Giacomo melodramma­tico non lo è affatto, è una tragedia, veloce, asciutta, classica. Si comincia con il coro delle stiratrici, dei familiari, degli uomini di giustizia (siamo in un processo). Si finisce con i tre protagonis­ti, che diventano prima due, poi uno: Assunta, sola, inchiodata nella sua irrevocabi­le solitudine. È successo che il suo amante Michele l’ha sfregiata, per punirla di un tradimento, ed è stato condannato a due anni di carcere. Ma Assunta, che lo ama, non sopporta sia trasferito ad Avellino, dove vederlo sarà più difficile.

Si concede allora, con la sua gravità, con la sua leggerezza, Gabbia

Una scena del dramma «Assunta Spina» di Pino Carbone, ambientato in una sorta di vetrina casa a Federigo, che ottiene la permanenza di Michele a Napoli. Ma Assunta di Federigo si innamora, e quando Michele esce e torna a casa, lei confessa e Michele colpisce di nuovo: ma colpisce, uccide Federigo (tre volte), ed è Assunta ad assumersen­e la colpa.

In Di Giacomo lo svolgiment­o della storia è impeccabil­mente oggettivo, ma al nostro occhio contempora­neo il sacrificio finale di Assunta appare non tanto eroico quanto frutto di una condizione servile della donna, condizione di pura vittima, la donna come oggetto sociale, come merce. Nello spettacolo tutto ciò è chiarissim­o, nonostante i suoi visibili difetti: la pur bella e coloratiss­ima scenografi­a, con la teca-gabbia lassù e i fiori quaggiù è didascalic­a; il dialetto è parlato in modo troppo veloce. Ma l’insieme è un piccolo capolavoro. Sempre: nelle scene del coro e nelle due cruciali, quando Assunta si dà a Federigo, e quando confessa in silenzio: a parlare sono le sue mani.

Due scene di tensione pazzesca, spasmodica — dove appaiono attori insuperabi­li Chiara Baffi, Alfonso Postiglion­e e Claudio Di Palma.

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