M5S, i tormenti di Di Maio
Il vicepremier teme una nuova sconfitta elettorale
Dopo quello in Abruzzo, i 5 Stelle si preparano a gestire un nuovo insuccesso elettorale alle Europee. Il capo politico Luigi Di Maio, da mesi in tensione per la Lega in crescita, cercherà di non esserne travolto. Ma nel Movimento tutto congiura per metterlo sul banco degli imputati.
«Luigi non sarà il capro espiatorio se alle Europee prenderemo meno di quello che ci danno i sondaggi. Nel 2014 eravamo accreditati del 28, e prendemmo il 21 per cento. A maggio non andrà molto diversamente. I nostri elettori le sentono poco, come le Regionali. Certo l’abruzzo non ci voleva...». Traduzione di questa versione ufficiosa del M5S: il Movimento si prepara a gestire un insuccesso elettorale appena un anno dopo il grande successo delle Politiche del 4 marzo. E Luigi Di Maio, vicepremier e ministro per lo Sviluppo economico, cercherà di fare assorbire la sconfitta alle sue truppe senza esserne travolto.
Il piano è chiaro. E dovrebbe essere perfezionato nei prossimi giorni affiancandogli una serie di «referenti tematici», nel M5S li chiamano così, chiamati a condividere onori ma soprattutto oneri della strategia del leader. E la conquista dell’inps diventa essenziale, perché dovrà gestire il reddito di cittadinanza. Il problema è che l’intera impalcatura degli ultimi due mesi deve essere cambiata in
Le mani avanti
I 5 Stelle spiegano che «i nostri elettori sentono poco elezioni come le Europee»
corsa. L’accusa del drappello dei «puri e duri» a Di Maio è di avere ceduto terreno e agenda alla Lega di Matteo Salvini; di essere stato poco «grillino» e «di piazza», fasciato nelle sue grisaglie ministeriali. La sensazione, tuttavia, è che il vicepremier si sia convinto di avere perso colpi per la ragione opposta: per eccesso di estremismo.
La necessità di inseguire Salvini su immigrazione e antieuropeismo; l’esigenza di iniziare, almeno, a erogare il discusso reddito di cittadinanza prima del voto europeo; la tensione sorda sull’alta Velocità Torino-lione con l’altro vicepremier; l’autorizzazione a procedere contro Salvini in Parlamento; e poi il risultato di una settimana fa in Abruzzo: tutto congiura per mettere Di Maio sul banco degli imputati. E, come sempre, il problema non sono gli attacchi di opposizioni tuttora sfrangiate. Il problema è il Movimento.
Da lì possono arrivare non tanto nuovi leader, ma una diserzione di fatto. Anche perché Alessandro Di Battista «non ha funzionato. E forse avrebbe fatto meglio a restare in Italia invece di andarsene all’estero per sei mesi», spiegano a Palazzo Chigi. La piega estremistica che ha impresso ai Cinque Stelle ha investito lo stesso Di Maio, portandolo fino all’incidente diplomatico con la Francia per l’incontro con i «gilet gialli». Perfino i rapporti col Quirinale sono diventati meno fluidi del passato. Ma sarebbe ingeneroso puntare il dito sul solo Di Battista.
Da mesi, Di Maio è in tensione per le rilevazioni che danno la Lega in crescita e il M5S in calo. I suoi lo descrivono abbattuto e inquieto. L’ombra di Salvini gli fa commettere errori. Per questo, prima di Natale, complice l’accordo in extremis raggiunto dal premier Giuseppe Conte con la Commissione europea sulla manovra economica, è cominciato un tentativo di virata. Gli uomini della Casaleggio Associati, ispiratori dei Cinque Stelle, hanno stabilito che «Luigi non ce la fa più. Salvini gli mangia in testa». La somma degli incarichi si è rivelata superiore alle sue forze e capacità. E si è pensato a Conte come possibile anti Salvini, per riequilibrare i rapporti.
L’esperimento, però, è complicato. L’irruzione di Di Battista a fine anno ha oscurato il premier e restituito l’immagine di un grillismo estremista, incompatibile con un profilo di governo. E Di Maio, risucchiato fino ad allora dalle parole d’ordine salviniane, si è appiattito sull’a-ntiamericanismo del suo «gemello». Ora l’obiettivo di accreditarsi di nuovo come moderato e «ministeriale», è tutto in salita. Anche perché in parallelo è obbligato a insistere sul no alla Tav e a fare accettare un reddito di cittadinanza che produce confusione e diffidenza.
L’ostilità delle nazioni europee non si cancellerà con un incontro con l’ambasciatore francese di ritorno a Roma. E il colloquio di ieri sera tra il vicepremier e l’ambasciatore Usa, Lewis Eisenberg, conferma la volontà di riaffermare i rapporti con l’occidente; ma anche i dubbi americani sui rapporti ambigui tra M5S e Cina, e col Venezuela di Nicolás Maduro. Chi lo conosce descrive un Di Maio più moderato di quanto appaia, anche sull’unione Europea. Ma lo scarto tra immagine pubblica e privata porta a chiedersi se le sue posizioni oscillanti nascano da forti convinzioni, o da una tendenza naturale a farsi influenzare dal quelle altrui e dai sondaggi. È contraddittorio perfino il rapporto col leader leghista.
Il portavoce grillino di Palazzo Chigi, Rocco Casalino, ha confidato spesso di essere quasi geloso della sintonia tra i due vicepremier. Le pacche plateali e i sorrisi che si scambiano in pubblico tendono a trasmettere un’immagine di armoniosa intesa; e a proiettare il governo oltre le colonne d’ercole delle Europee, e oltre quelle strategiche delle elezioni per il Quirinale, nel 2022. Ma è una diarchia esposta a troppe variabili. E, chissà perché, rimane il sospetto che alla fine il capro espiatorio possa essere proprio «Luigi». Soprattutto se il 26 maggio i Cinque Stelle si accorgessero di avere perso un terzo dei voti rispetto a un anno fa.