Le ragazze come lei e quei diritti da difendere
Sana era una cittadina italiana. Era una delle nostre ragazze, una lavoratrice del nostro Paese, della nostra Europa. E adesso che il suo Pakistan le ha negato la giustizia tocca a noi fare onore al suo ricordo. Glielo dobbiamo. E allora cominciamo a chiederci quante Sana abbiamo oggi in Italia. Quante ragazze vivono imposizioni religiose e culturali fra le mura delle loro case? Quante condividono ogni giorno studi e sogni con le loro coetanee e però sanno che potranno scegliere ben poco della vita che le aspetta? Non sono corpi estranei, quelle ragazze. Non sono «altro» da noi. Se arrivano nelle nostre città, se abitano nelle nostre strade e fanno parte delle nostre comunità, è giusto sostenerle, fare in modo che le nostre regole siano anche per loro, fino in fondo. Ed è giusto aiutarle nel percorso verso il rispetto fra le persone, che deve — per forza deve — passare anche dal rispetto di genere e di sentimento. Sana non voleva sposare l’uomo che la sua famiglia aveva scelto per lei. E chissà se i suoi ultimi pensieri sono stati per il ragazzo di cui era invece innamorata. Una cosa la sappiamo: è morta per aver voluto essere una di noi. Ma attenzione: essere una di noi non significa convertirsi, omologarsi, annullare le proprie radici. Vuol dire essere libera di pensare, sentire, fare, senza diritti e doveri diminuiti. Oggi fare onore al suo ricordo significa provare a salvare ogni Sana che verrà. Apriamo sportelli, centri di ascolto, servizi per chi fugge da imposizioni dettate da cultura e religione. Lavoriamo perché le figlie delle famiglie musulmane, per esempio, non abbandonino la scuola (come succede) più dei maschi. Facciamo sentire la nostra voce fino in Pakistan, come successe un anno fa quando fu istruito il processo. Chiediamo #Giustiziapersana.