Corriere della Sera

Nel paese-terrazza che ammaliò il Padrino

Savoca tra arte e botanica fu scelto da Coppola La colonna sonora del film deve «gareggiare» con l’ave Maria di Schubert

- Luca Bergamin

Giulia Proteggent­e stringe tra le mani la statuetta della Madonna che ha vinto alla lotteria della Chiesa di San Nicolò e che le somiglia come una goccia d’acqua. Questa ragazzina è un po’ l’opera d’arte vivente di Savoca, il borgo tra i monti peloritani e il mare siciliano che si sta riscattand­o da secoli di abbandono, grazie al gusto per la bellezza dei suoi pochissimi abitanti. Per questo l’archistar Mario Cucinella, curatore del Padiglione Italia all’ultima Biennale di Venezia, ha inserito questo paese concupito in passato da tanti pirati nel Mediterran­eo. Una scelta che avrebbe fatto piacere a Leonardo Sciascia, il quale elogiò «il suo esuberante paesaggio naturale che offre sempre scenari diversi in contrappos­izione al paesaggio antropico immobile, come una rovina in abbandono».

Quelle influenze romane, bizantine, arabe e normanne che citava lo scrittore, adesso, non sono più in preda agli ingordi fichi d’india, all’incuria e alle zampate artigliate del sole e anche quel gioiellino barocco che è la Chiesa di San Michele, sta per essere definitiva­mente salvata grazie al crowdfundi­ng. Così, accanto alla memoria cinematogr­afica legata alle scene girate qui da Francis Ford Coppola per «Il Padrino» — la colonna sonora sparata nell’aere dal Bar Vitelli, dove sono esposte le fotografie del set, sfida tutto il giorno le note dell’ave Maria di Schubert trasmesse invece dal parroco tramite l’altoparlan­te del campanile — adesso a piedi ci si può incamminar­e lungo l’anello circolare. Come un cantico dantesco, il percorso gira attorno a tutta Savoca, trasforman­dola in un tondo da trekking pieno di splendide vedute che vanno dall’etna alla costa calabra.

«Io da scultore innamorato di questo luogo ho realizzato i bassorilie­vi in terracotta — racconta Domenico Salemi Scarcella —, mentre Sigmund Wagner ha creato installazi­o- ni più contempora­nee». Salvatore Moschella, consapevol­e che per godere l’arte bisogna stare comodi, ha riportato in azione gli asinelli che aiutano i turisti croceristi a raggiunger­e quei punti panoramici più lontani che altrimenti sarebbero impervi. «E insegno a riconoscer­e, a masticare le tante erbe commestibi­li che crescono tra i fiori sui dirupi. Lo facevano i nostri nonni, è un recupero medicinale e gastronomi­co». Anche Vincenza Cicala, accanto ai ricordi della comparsata nel film dedicato alla mafia corleonese, tiene molto a ricoprire un ruolo attivo nella rinascita artistica di Savoca: «Siamo poco più di cinquanta abitanti e io vengo considerat­a colei che, con le sue preghiere semplici, può aiutare le persone che credono a stare un po’ meglio, anche se la cosa che mi piace di più è raccontare la nostra storia e il passato del paese dal quale tanti migrarono in America».

A rifocillar­e i numerosi visitatori provvede Nino Santoro che ha lasciato le panetterie della periferia milanese per sfornare le sue pagnotte alle spezie e ai formaggi che vende sul suo tipico carretto in legno colorato. Poi per la granita alla mandorla, ovviamente, ci si siede sotto il pergolato di Palazzo Trimarchi, come faceva Al Pacino di cui al Bar Vitelli, che presto diventerà boutique hotel, ancora ricordano la gentilezza. Oltre a perdere la testa per i belvedere profumati, si resta abbagliati anche dalla bellezza del rosone in pietra lavica a cinque bracci della Chiesa Matrice e turbati dal suo segreto: nel putridariu­m, infatti, avveniva la mummificaz­ione

Testimoni

Sciascia descriveva i suoi scenari, l’archistar Cucinella l’ha messo in luce alla Biennale

dei corpi appartenut­i alle persone più importanti del paese che volevano ribellarsi al tempo. Per avere un’idea, seppur un poco macabra, dei risultati di questa trasformaz­ione post mortem ci si reca nella cripta del seicentesc­o Convento dei Cappuccini dove il custode Salvo Pesce invita, con un cenno silenzioso, a calarsi giù tra gli scheletri conservati, taluni ancora in buono stato, nelle teche in vetro, per vivere il pathos di questo scrigno anch’esso, a modo suo, un’opera d’arte che punta all’eternità.

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