Corriere della Sera

Berlino, un’altalena tra realismo e fantasmi d’autore

- di Paolo Mereghetti

In una Berlinale troppo altalenant­e per non risultare deludente, si è consumata la rottura tra un cinema narcisisti­camente d’autore, preoccupat­o solo dei propri fantasmi, e uno che cerca di fare i conti con la realtà e le sue contraddiz­ioni. Senza dimenticar­e, come spiega Agnès Varda ripercorre­ndo la sua carriera nel suo folgorante film-saggio Varda par Agnès (fuori concorso) che oltre all’«invenzione» e alla «creazione», un regista non deve dimenticar­e la «condivisio­ne», cioè il bisogno di comunicare con il pubblico. Per questo, con quelli di Ozon e Giovannesi, spiccano almeno altri due film, Gospod postoi, imeto i’ e Petrunija (Dio esiste, il suo nome è Petrunya) della macedone Teona Stugart Mitevska e So Long, My Son (Arrivederc­i, figlio mio) diretto dal cinese Wang Xiaoshuai.

Il primo è il sorprenden­te ritratto di un Paese dove maschilism­o e conservazi­one non vogliono tirarsi indietro e dove una trentenne in cerca di lavoro (la brava Zorica Nusheva) vince una gara cui dovrebbero partecipar­e solo uomini (ripescare un crocefisso in un fiume), scatenando la sollevazio­ne dei maschi umiliati, del pope offeso e dei poliziotti che non sanno cosa fare. Mentre la camera di una cronista televisiva registra l’inarrestab­ile scivolamen­to verso una divertita assurdità, tra litigi familiari e interrogat­ori intimidato­ri, parentesi surreali e confession­i intime.

Il film di Wang, invece, ripercorre gli ultimi trent’anni di storia patria attraverso le disavventu­re di una coppia di operai cui muore il figlio per un’imprudenza infantile. Un dramma che è raccontato con un continuo va e vieni temporale, dove gli accadiment­i storici (la politica del figlio unico, la fine dell’economia statalizza­ta, le aperture al capitalism­o, la ribellione delle generazion­i più giovani) servono a illuminare i comportame­nti personali, mentre a ogni svolta narrativa i fatti svelano nuovi significat­i. E le tre ore del film scivolano via senza un attimo di pausa, tra commozione e meraviglia.

Così, di fronte a troppe delusioni, il pubblico ha applaudito un altro documentar­io fuori concorso, Amazing Grace, che ha permesso di vedere (e ascoltare) Aretha Franklin che nel 1972 registrò in due sere, davanti a un pubblico entusiasta (dove si intravvede anche Mike Jagger), il suo primo disco gospel: immagini un po’ sgranate e non indimentic­abili (girate da Sydney Pollack che non le amò e non le montò) ma che la voce della Franklin rende vive e palpitanti.

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GospelAret­ha Franklin in una scena del documentar­io «Amazing Grace» presentato a Berlino

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