Berlino, un’altalena tra realismo e fantasmi d’autore
In una Berlinale troppo altalenante per non risultare deludente, si è consumata la rottura tra un cinema narcisisticamente d’autore, preoccupato solo dei propri fantasmi, e uno che cerca di fare i conti con la realtà e le sue contraddizioni. Senza dimenticare, come spiega Agnès Varda ripercorrendo la sua carriera nel suo folgorante film-saggio Varda par Agnès (fuori concorso) che oltre all’«invenzione» e alla «creazione», un regista non deve dimenticare la «condivisione», cioè il bisogno di comunicare con il pubblico. Per questo, con quelli di Ozon e Giovannesi, spiccano almeno altri due film, Gospod postoi, imeto i’ e Petrunija (Dio esiste, il suo nome è Petrunya) della macedone Teona Stugart Mitevska e So Long, My Son (Arrivederci, figlio mio) diretto dal cinese Wang Xiaoshuai.
Il primo è il sorprendente ritratto di un Paese dove maschilismo e conservazione non vogliono tirarsi indietro e dove una trentenne in cerca di lavoro (la brava Zorica Nusheva) vince una gara cui dovrebbero partecipare solo uomini (ripescare un crocefisso in un fiume), scatenando la sollevazione dei maschi umiliati, del pope offeso e dei poliziotti che non sanno cosa fare. Mentre la camera di una cronista televisiva registra l’inarrestabile scivolamento verso una divertita assurdità, tra litigi familiari e interrogatori intimidatori, parentesi surreali e confessioni intime.
Il film di Wang, invece, ripercorre gli ultimi trent’anni di storia patria attraverso le disavventure di una coppia di operai cui muore il figlio per un’imprudenza infantile. Un dramma che è raccontato con un continuo va e vieni temporale, dove gli accadimenti storici (la politica del figlio unico, la fine dell’economia statalizzata, le aperture al capitalismo, la ribellione delle generazioni più giovani) servono a illuminare i comportamenti personali, mentre a ogni svolta narrativa i fatti svelano nuovi significati. E le tre ore del film scivolano via senza un attimo di pausa, tra commozione e meraviglia.
Così, di fronte a troppe delusioni, il pubblico ha applaudito un altro documentario fuori concorso, Amazing Grace, che ha permesso di vedere (e ascoltare) Aretha Franklin che nel 1972 registrò in due sere, davanti a un pubblico entusiasta (dove si intravvede anche Mike Jagger), il suo primo disco gospel: immagini un po’ sgranate e non indimenticabili (girate da Sydney Pollack che non le amò e non le montò) ma che la voce della Franklin rende vive e palpitanti.