«Io, a 13 anni innamorato del cinema»
In arrivo il film «C’è tempo» «Passione cominciata a 13 anni Si torni nelle sale per discutere Invoco il dibattito, il dibattito sì»
«Io, sedotto dal cinema. Una passione iniziata quando avevo 13 anni». Il Walter Veltroni regista si racconta al Corriere. In arrivo il suo film «C’è tempo». Uscirà nelle sale il 7 marzo, e per la prima volta non sarà un film-documentario.
Il film uscirà il 7 marzo, si intitola C’è tempo e il regista è Walter Veltroni, per la prima volta dopo cinque film-documentario dietro la macchina da presa per girare un film con una trama, una storia tonda e compiuta recitata da attori e attrici. La prima volta dopo una vita trascorsa tra incarichi politici e istituzionali. Un film on the road, un viaggio dove si incontrano un gigante buono e simpatico come Stefano Fresi e un ragazzino magro e sveglio, «un’intelligenza straordinaria nel corpo di un bambino» come dice Veltroni di Giovanni Fuoco , che inscenano «la bellezza e il fascino della diversità: caratteriale e anche fisica, svelata attraverso un viaggio di riconoscimento reciproco».
Un film che alle sue spalle ha una vita intera di passione smodata per il cinema. Veltroni è un collezionista di film raccolti nella sua testa con una puntigliosità maniacale.
Sul suo tavolo di casa è esposto un quadernetto in cui, incolonnati e scritti a penna «in bella calligrafia», ci sono minuziosi elenchi di film visti, degli attori (Jack Lemmon e Marcello Mastroianni tra i più quotati), dei registi, persino dei direttori della fotografia, ciascuno giudicato con le rituali stellette di apprezzamento. Il tutto datato 1968: «Avevo appena tredici anni ed ero già stato conquistato da una passione assoluta per il cinema, che era e continua a essere per me la sintesi meravigliosa di tante cose e varie: fantasia, conoscenza della realtà, educazione sentimentale. Quel quadernetto è la prova che sin da allora sentivo il cinema come parte costitutiva della mia persona. Andavo al cinema quasi tutti i giorni, a volte tutti i giorni. Per la nostra generazione andare al cinema era un rito laico. Non c’erano videocassette, o dvd, o la pay-per-view con i film da guardare seduti sul divano. O meglio, quando ero un ragazzino gli unici film da vedere in tv erano quelli che trasmettevano la mattina in occasione della Fiera di Roma, o quelli del lunedì sera, ma solo quando si diventava più grandi. Per divorare film ti dovevi muovere, dovevi andare tu, dovevi cercare, non ti arrivava tutto a casa. E c’era una quantità impressionante di sale cinematografiche dove potevi andare ogni giorno, dal pomeriggio alla sera, da solo o in compagnia. Fantastica abbondanza: cinema di prima, seconda e terza visione, sale di quartiere, cinema d’essai, cineclub, sale parrocchiali, cineforum».
Mica sarà il cineforum offoff del «dibattito noooo!» della celebre invocazione di Nanni Moretti? «Magari! Ora invoco esattamente il contrario: “il dibattito sì!”. Tornare al cinema per discutere, anche per litigare, ritrovare il gusto della sala come luogo di socialità, di impegno addirittura».
Ma intanto le sale si svuotano, ci sono le serie tv, non «si va» quasi più al cinema. «E’ vero, ma non sarei così catastrofista, e le serie tv, come diceva Bernardo Bertolucci, sono “cinema dilatato”. Però certo, bisogna riaprire le sale, riempirle, attirare la gente, scegliere modi e luoghi nuovi dove proiettare film come sta facendo l’anteo a Milano. E infatti i titoli di coda di “C’è tempo” sono accompagnati dai dipinti ad acquerello di sale cinematografiche ormai in disuso creati da Severino Salvemini, un economista della Bocconi. Io le amo, le sale cinematografiche. Quando vado al cinema vorrei entrarci mezz’ora prima, riconoscere gli arredi, l’odore, il buio, lo schermo che si accende, persino la pubblicità. Ogni sala ha una sua storia e per noi malati di cinema quella storia è degna di essere vissuta, raccontata».
Veltroni, ci sono anche questi foglietti colorati sparsi sul tavolo: «Sono gli avvisi delle programmazioni mensili dei cinema d’essai di Roma, il Nuovo Olimpia e il Farnese, che io frequentavo quotidianamente, sottolineando tutte le tonnellate di film che volevo vedere».
Vedo segnati tra gli altri Uccellacci e uccellini di Pasolini, Due o tre cose che so di lei, di Godard, Blow-up di Antonioni. Ma sono foglietti del ’71, del 72! Lei è davvero un maniaco, un feticista. «No, un amante disperato del cinema, da sempre. Tutta la mia vita è intrecciata con il sogno del cinema, anche quando svolgevo altri ruoli. E la mia casa è piena di ricordi e momenti della vita del cinema che si sono mescolati con la mia. Lì c’è la foto di Alberto Sordi al funerale di mio padre. Quel Leone d’oro sullo scaffale a sinistra è di Gillo Pontecorvo che mi regalò la copia riprodotta quando lui aveva perso quella originale. Poi la ritrovò e volle farmi dono di questa. Dall’altra parte, a destra, c’è la statuetta del David di Donatello vinta da Ettore Scola, un uomo che ricordo con affetto infinito, con Ballando ballando».
Confermo: un feticista. Nel suo film compare addirittura un’icona del grande cinema francese, Jean-pierre Léaud, uno degli attori preferiti di François Truffaut. «Ho disseminato il film di una cinquantina di oggetti, icone, reperti della storia del cinema che non voglio anticipare per non fare auto-spoiler. Invito lo spettatore a riconoscerli senza aiutini». No, un paio ce li deve. «Solo due però. C’è la scena in cui un’attrice indossa la vestaglia portata da Sophia Loren in Una giornata particolare. E poi le padelle bucate nella trincea della Grande Guerra di Mario Monicelli». E basta? «Basta, anzi no: aggiungo che in una scena appare Laura Efrikian, indimenticabile protagonista dei “musicarelli” con Gianni Morandi, un genere cinematografico che ho sempre molto amato».
Registi che ha conosciuto e di cui sente la mancanza? «Beh, mancanza assoluta di Scola, e dei suoi racconti di quando assieme a mio padre scriveva battute per Sordi. Poi Federico Fellini, uomo totalmente anti-ideologico, che ti raccontava cose della sua vita in cui non sapevi mai dove finisse la realtà e dove cominciasse la fantasia più sfrenata: esattamente la miscela del cinema che mi ha sempre affascinato. E Bertolucci, un uomo geniale, che ci rimase molto male quando Gian Carlo Pajetta e Giorgio Amendola, ma soprattutto Pajetta, che era un uomo puntuto e fumantino, lo attaccarono per il suo Novecento. Bernardo fece vedere il film in anteprima a noi tre della Fgci, io, Goffredo Bettini e Gianni Borgna, e appunto a Pajetta e Amendola. Noi tre entusiasti, i due padri storici molti critici. Ma quelli erano i tempi. Tempi di durezze, ma anche di discussioni, di impegno civile. Di dibattito. Il dibattito sìììì!, ripeto».
Tempi finiti, i tempi in cui lei era un politico a tempo pieno e non faceva regie di film. «Guardi, le confesso che con questo film si riunifica la strada che si era biforcata con un bivio fatale nella mia vita a 18 anni». Un’altra citazione, questa volta di Sliding Doors? «Non proprio, ma nello stesso giorno del ’73 mi arrivò sia la proposta di fare l’assistente alla regia a Una pistola nel cassetto di Bruno Bongioanni, sia di diventare il responsabile degli studenti di Roma della Fgci. Si sa quale fu la mia scelta e credo di aver fatto bene, perché tutta la mia vita politica si è intrecciata con la passione per il cinema. Ma adesso quella separazione si è ricomposta e spero che il film possa suscitare allegria, commozione e anche un po’ di dibattito». Il dibattito nooo!. «Il dibattito sì!!!».
Nello stesso giorno del 1973 mi arrivò sia la proposta di fare l’assistente alla regia sia di diventare il responsabile degli studenti di Roma della Fgci