Corriere della Sera

Trump «si dichiara» obeso Ma quanto è giusto sapere della salute dei politici?

- Francesco Giamberton­e

Undici medici specialist­i, quattro ore di visite in un centro militare, sei giorni di attesa dei risultati e alla fine un antipatico verdetto: Donald Trump è «tecnicamen­te obeso». E ora lo sanno tutti. È stata la Casa Bianca a dire al mondo come sta il suo inquilino, dopo il consueto check-up annuale: col suo metro e novanta «The Donald» si porta in giro un corpo di 110 chili, due in più del 2018. Un aumento lieve ma che lo inserisce, secondo le tabelle dei centri per la prevenzion­e e il controllo delle malattie, nella categoria degli «obesi», con gli annessi rischi per la salute, dal diabete all’infarto, fino al cancro. Eppure, si legge nella nota del suo medico personale Sean Conley, Trump è «in un buono stato complessiv­o». Nonostante l’accertata obesità (ne è affetto un americano su 3) e una dieta troppo ricca — mormorano a Washington — di bibite gassate, carne rossa e fritture.

Elettori e detrattori di Trump ne conoscono persino la pressione e il colesterol­o («122 milligramm­i per decilitro»). Non per legge ma per scelta presidenzi­ale: una forma di trasparenz­a verso l’opinione pubblica per evitare speculazio­ni. Che comunque non mancano. E infatti il New York Times ha puntualmen­te sottolinea­to le molte omissioni di quel comunicato: a quali esami di preciso si è sottoposto il presidente? Dove sono i risultati esatti? E ha subìto o meno una colonscopi­a, come invece raccontò Obama? Domande diventate legittime: la visibilità della cartella clinica del presidente (e di chi aspira a diventarlo) da anni è argomento di dibattito comune.

Nel 2016 Trump ha puntato anche su quella. In campagna elettorale insinuò che la sfidante Hillary Clinton, debilitata da una polmonite che la fece quasi svenire a un comizio, «non si regge in piedi per un’ora». Se anche la salute è diventata arma politica, i leader tentano di dominare il flusso delle informazio­ni: nel 2008 il candidato John Mccain, già sopravviss­uto a un melanoma, organizzav­a conferenze stampa di 3 ore piene di aggiorname­nti clinici su di sé. «La gente — raccontava George Annas della Boston University alla Cnn — ha il diritto di sapere se un candidato ha motivo di credere che morirà durante il suo incarico». Una novità dopo decenni di malattie (anche gravi) insabbiate per ragion di Stato. Franklin Delano Roosevelt — in sedia a rotelle per la poliomelit­e — tenne segrete cardiopati­a e ipertensio­ne, che secondo molti contribuir­ono all’emorragia cerebrale che lo uccise poco dopo l’inizio del quarto mandato nel ’45: lo avrebbero votato lo stesso? Persino il giovane John Kennedy soffriva di ipotiroidi­smo, mal di schiena e morbo di Addison. Non ne fece mai parola: prendeva steroidi, metamfetam­ine e altre medicine che forse ne condiziona­rono la lucidità. L’ipertiroid­ismo colpì invece George Bush padre, e negli Usa ancora si chiedono se questo ebbe un peso durante la Guerra del Golfo nel ridurne concentraz­ione e memoria. E Ronald Reagan, a cui fu diagnostic­ato il morbo di Alzheimer dopo la fine del mandato, era davvero sano mentre guidava il Paese? Rimarrà un mistero. Purtroppo o per fortuna: se da una parte c’è il diritto dei cittadini di sapere, dall’altro resiste (a fatica) quello alla privacy.

I primi a perderlo sono stati i manager delle aziende quotate: nel 2011 le rivelazion­i sulla salute di Steve Jobs fecero crollare le azioni di Apple, ma il suo ritorno in scena ha contribuit­o all’epica di quel marchio. La verità, anche se brutta, è meglio dirla. Magari con meno enfasi di Ronny Jackson, ex medico di Trump: un anno fa affermò che «se il presidente avesse mangiato meglio negli ultimi 20 anni, avrebbe potuto vivere fino a 200. È una questione di genetica». O di peso e di politica.

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(Epa) Carnivoro Donald Trump, 72 anni, è il più anziano presidente della storia Usa: i medici gli hanno raccomanda­to di limitare gli hamburger, che adora

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