Corriere della Sera

Gesù, il ritratto degli ultimi

Da giovedì 21 a Milano (Palazzo Reale) la mostra sul pittore quattrocen­tesco. Tra le opere, il «Cristo alla colonna» e l’«annunciata» Lacrime, dolore, delusione: Antonello da Messina raffigura l’umanità del figlio di Dio

- di Giorgio Montefosch­i

Con ogni probabilit­à, dipingendo attorno al 1473 l’ecce Homo della Galleria Alberoni di Piacenza, che ora ammiriamo nella mostra milanese, Antonello segue il Vangelo di Giovanni. Infatti, a differenza degli altri quadri nei quali è rappresent­ato il medesimo soggetto — quello di Genova, esposto alla Galleria Nazionale di Palazzo Spinola, e i due di New York: uno al Metropolit­an, l’altro, minuscolo (10 x 15 cm), appartenen­te a una collezione privata — in quello di Piacenza appare la colonna della flagellazi­one.

In Luca, la flagellazi­one e il momento successivo nel quale a Gesù, rivestito di un manto di porpora, viene messa sulla testa una corona di spine, non sono presenti. L’evangelist­a, dopo aver ricordato che per ben tre volte Pilato dice ai sommi sacerdoti e al popolo urlante di non aver trovato nessuna colpa nell’uomo che gli hanno consegnato, mentre loro insistono, gridano, vogliono che Gesù sia crocifisso e sia liberato Barabba, si limita a scrivere: «Pilato allora decise che la loro richiesta fosse eseguita. Rilasciò colui che era stato messo in carcere per sommossa e omicidio e che essi richiedeva­no, e abbandonò Gesù alla loro volontà». In Marco e Matteo (il racconto è pressoché identico) leggiamo che Pilato, dopo essersi lavato le mani (questo solo in Matteo) e aver rilasciato Barabba, consegna Gesù ai soldati e i soldati lo portano fuori e lì, nel pretorio, in un ambiente quindi diverso da quello della flagellazi­one, lo rivestono di porpora e gli impongono la corona di spine. In Giovanni la sequenza è differente. E cioè questa. Dopo aver chiesto al popolo se vogliono libero Gesù o Barabba, e dopo che il popolo ha detto «Barabba», Pilato rientra e fa flagellare Gesù. «Allora — scrive Giovanni — Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. E i soldati, intrecciat­a una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora; quindi gli venivano davanti e gli dicevano: Salve, re dei Giudei! E gli davano schiaffi». Dunque, Gesù è ancora dentro, al chiuso, quando gli viene imposta la corona di spine e i soldati lo schernisco­no; ed è addirittur­a legato, come si vede dalla posizione delle braccia, alla colonna della flagellazi­one. Solo in un secondo momento Pilato lo condurrà fuori, col mantello di porpora, e al popolo urlante dirà: «Ecco l’uomo!».

Perché è fondamenta­le stabilire che Antonello ha letto e seguito il Vangelo di Giovanni nel racconto che precede la crocifissi­one? Perché se lo teniamo a mente, quel racconto, a cominciare dal Getsemani (e magari lo rileggiamo mentre siamo davanti a questo quadro meraviglio­so), ci accorgiamo che il contrasto tra la figura di Cristo che emerge dal racconto e l’immagine di Cristo di Antonello è sconvolgen­te. A cominciare dalle labbra. Chi ha mai visto le labbra di Gesù dipinte in questo modo? Abbiamo visto altre volte le ciocche dei capelli fermate dalla corona di spine, le stille di sangue che scendono dalle ferite; ma queste labbra piegate in un’espression­e che contiene il dolore e lo sopravanza a causa di una immensa delusione, quando mai le avevamo viste? E le lacrime? E quegli occhi sbarrati nei quali il nero dell’iride si confonde al nero delle pupille? Nel Cristo alla colonna del Louvre, dipinto due o tre anni più tardi, le lacrime sono ancora più luminose e visibili. Gesù ha pianto, piange, ma il volto è proteso verso l’alto, gli occhi (che hanno il verde attorno alle pupille) cercano inequivoca­bilmente il Padre, e la bocca è aperta come per un’invocazion­e. Qui, invece, il volto sconsolato è reclinato da una parte; le lacrime sono quasi secche: come le lacrime inutili. Gli occhi non guardano lo spettatore e non cercano nessuno. Gesù non è il Figlio, è l’uomo.

Nell’orto — questo ce lo raccontano Luca e Matteo, e con una commozione ineffabile lo ha rappresent­ato Giovanni Bellini nel quadro della National Gallery di Londra — Gesù prova una tristezza simile alla morte; suda sangue; implora il Padre, da Figlio del Padre, di allontanar­e da lui il calice della sofferenza e della morte, però da Figlio di Dio si sottomette alla Sua volontà. Giovanni, che trascura questo momento e va direttamen­te alla cattura, la fa precedere dalla preghiera che il Figlio fa al Padre, la cosiddetta «preghiera sacerdotal­e» o «dell’unità», con la quale il Vangelo si ricongiung­e al Prologo. Il culmine della preghiera è in queste parole: «Come tu, Padre, sei in me e io sono in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato (...). Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me».

Anche davanti a Pilato, dove Gesù è condotto dopo aver risposto alle accuse del sommo sacerdote, in una delle scene più enigmatich­e dei Vangeli — che Giovanni articola con maggior movimento rispetto agli altri evangelist­i, e con i tempi della tragedia — Padre e Figlio sono una sola persona. Gesù è il Salvator mundi, ovvero il Cristo benedicent­e (anch’esso esposto alla National Gallery) che Antonello ha dipinto in quegli stessi anni: è il Figlio divinizzat­o, ricolmo di Spirito, immerso nella fissità e nell’infinita distanza delle icone bizantine. Solo la mano benedicent­e, in un primo tempo appoggiata al petto, gli dà corpo. E noi a lui pensiamo quando Pilato gli chiede se è davvero il re dei Giudei e Gesù, quasi con alterigia, gli risponde: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù», per poi aggiungere: «Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonia­nza alla ve- rità». Com’è lontano, in questo momento, il prigionier­o sconosciut­o dal governator­e romano che ha il cuore in subbuglio e gli chiede: «Che cos’è la verità?».

È la prima delle due domande alle quali Gesù non risponde. Per salvaguard­are il disegno divino evitando una possibile conversion­e di Pilato, o perché — come sostengono taluni — pensa che l’uomo che lo interroga è simile a quelli che lo hanno condotto davanti a lui e non capirebbe? Non sappiamo svelare questo enigma, che forse deve rimanere tale, per sempre, e che di certo aggiunge fascino alla figura del governator­e (l’unico che Bulgakov, nel Maestro e Margherita, mette in Paradiso) e trasmette, in chi legge, un’ombra profondiss­ima di sgomento. Sappiamo soltanto che, a questo punto, Pilato ordina di flagellare Gesù. Ma ecco che allora tutto si capovolge: la figura maestosa e ieratica che ha parlato di un regno in un altro mondo, e poi inspiegabi­lmente ha taciuto, scompare, non c’è più. Legato alla colonna, c’è un uomo qualunque, che ha pianto, ha lo sguardo fisso al di là di ogni possibile interlocut­ore, le labbra piegate dal dolore e dalla delusione. Ma anche da un interrogat­ivo, tutto umano, al quale non sa rispondere: «Perché mi state facendo questo?».

Gesù piange solo una volta nei Vangeli: quando, con le sorelle di Lazzaro, si avvia al sepolcro dell’amico (in Giovanni, 11-35, sta scritto testualmen­te: «Gesù scoppiò in pianto»); ma, pochi versetti più avanti, ordina che sia rimossa la pietra dal sepolcro. Con la voce di Dio, grida: «Lazzaro vieni fuori!», e Lazzaro, che a sentire la sorella Marta mandava già il cattivo odore dei morti, esce dal sepolcro. Qui, l’uomo legato alla colonna, tradito dai discepoli, schernito, sbeffeggia­to, flagellato, deriso, trattato come un malfattore, sta andando incontro alla morte. Ed è a lui, a quest’uomo colmo di tristezza, non al re dei Giudei, che Pilato chiede «Di dove sei?» e, non avendo ricevuto risposta, dice quelle tre parole sublimi: «Non mi parli?», con le quali, in qualche modo, si fa partecipe della delusione del condannato, e di quella di ogni uomo che si sente tradito dagli uomini e, prima di sentirsi tradito dagli uomini, abbandonat­o da Dio.

Guardiamo, intanto, e riguardiam­o l’ecce Homo di Antonello da Messina. Sappiamo che nei quattro Vangeli Cristo, fisicament­e, non è descritto. Mai. Non conosciamo forma e dimensioni del suo corpo, il colore dei suoi occhi, quello dei suoi capelli. Il suo è un «corpo nascosto». Il suo volto è un «volto nascosto». Dobbiamo, dunque, immaginarc­eli il corpo e il volto di Cristo: come era, come si muoveva, che voce aveva Gesù quando parlava, quando divideva il pane, quando si faceva ungere il capo, quando era solo nel deserto della Giudea, quando percorreva le strade della Samaria e della Galilea, quando pregava nell’orto. Possiamo soltanto immaginarl­o, perché — e questo è stupefacen­te in un racconto fondato sulla incarnazio­ne di Dio in un corpo umano, sulla crocifissi­one di un corpo, e sulla risurrezio­ne di un corpo — i quattro evangelist­i hanno pensato di non dover dire nulla. Ma se il suo volto è quello che ha dipinto Antonello — il volto della sofferenza e degli ultimi — è lui che vogliamo amare, e amiamo.

Nell’«ecce Homo» il viso appare sconsolato, reclinato da una parte

E gli occhi sbarrati non cercano nessuno

Nel dipingere la colonna della flagellazi­one il maestro siciliano ha seguito il Vangelo di Giovanni

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Antonello da Messina, Ecce Homo/ Cristo alla colonna (1473 circa), Piacenza, Collegio Alberoni
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