Una meritocrazia che alimenta la disuguaglianza
Chiara Volpato per Laterza
Quando due ricercatori dell’università di New York hanno registrato con i Google Glass i movimenti oculari di un gruppo di individui che camminavano per le strade, hanno scoperto che i ricchi guardavano le persone che incontravano molto meno dei poveri. Gli individui di stato sociale più basso, spiega Chiara Volpato in Le radici psicologiche della disuguaglianza (Laterza, pp. 264, 18), hanno «un minore controllo sulla propria vita, più soggetta all’influenza di poteri esterni», e quindi «maggior bisogno di sorvegliare le persone», mentre al contrario quelle potenti «sono circondate da individui che competono per attirare la loro attenzione, con la conseguenza che impiegano più stereotipi e scorciatoie mentali, tipici di chi è mentalmente sovraccarico».
È solo uno dei modi in cui le diseguaglianze economiche e sociali si inscrivono nei corpi e nelle menti delle persone, cambiandole profondamente e strutturando il modo in cui si relazionano le une alle altre. Volpato, ordinaria di Psicologia sociale all’università Bicocca di Milano, usa gli strumenti della sua disciplina per mostrare quei meccanismi mentali che permettono ai privilegiati e agli svantaggiati di accettare e poi perpetuare le diseguaglianze, spesso senza esserne consapevoli, e che sfuggono alle tradizionali analisi (economiche, sociologiche, filosofiche) sul tema.
L’esito è sorprendente, perché svela il carattere repressivo di veri e propri «dogmi» del progresso sociale, come la meritocrazia: «Ieri l’aristocrazia nobiliare si fondava sul mito eroico, oggi l’aristocrazia economica invoca il mito meritocratico», scrive Volpato. «Più i membri dei gruppi di basso status aderiscono a credenze meritocratiche, meno percepiscono la discriminazione a cui sono sottoposti», mentre «all’aumento della distanza tra ricchi e poveri aumenta tra i primi la percezione di entitlement, la paura di perdere i privilegi e la connessa motivazione a giustificare ulteriormente la propria posizione» credendo di essersela meritata. Anche se «nel corso delle ultime tre decadi, nei Paesi occidentali si è registrato un rafforzamento della tendenza a credere che coloro che vivono nel bisogno siano in tale condizione per loro responsabilità e non a causa dell’ingiustizia sociale», è vero il contrario: la mobilità sociale è minore di quanto crediamo, e l’alto status sociale produce una sorta di rendita di posizione che permette alle persone di acquisire competenze e capacità, mentre quello basso impone una «tassa sulla mente». Tutti gli esperimenti empirici dimostrano che «i poveri hanno una capacità effettiva inferiore ai ricchi non perché siano meno capaci, ma perché una parte della loro mente è catturata dalla scarsità» e frenata dalla «vergogna» di sentirsi da meno.
Il libro è, dati alla mano, un atto d’accusa verso la crescente diseguaglianza delle nostre società. Anche di quella italiana, la più diseguale in Europa dopo Portogallo e Regno Unito. La polarizzazione tra pochi ricchi e una massa di persone impoverite (o che temono l’impoverimento), oltre a pregiudicare il benessere collettivo, i tassi di felicità e la salute, minaccia il funzionamento della democrazia, soprattutto quando ci sono soggetti politici, come i partiti populisti, che amplificano la percezione di «una deprivazione relativa» (il senso cioè di essere penalizzati rispetto agli «altri»). Colpisce l’attualità dell’analisi di Volpato, soprattutto dove descrive le «manifestazioni di protesta più radicali, distruttive e violente, originate dalla sensazione che le azioni progettate non siano efficaci»: sono l’effetto del percepire l’ingiustizia senza avere la fiducia di poterla superare.