LUCE DI FAMIGLIA
L’appuntamento A Conegliano Veneto una mostra racconta un’altra stirpe di artisti che ha fatto della pittura dei paesaggi tra il Sile e la Laguna uno scenario di sperimentazione, mentre si affermava la fotografia e nasceva il cinema
La storia dell’arte veneta è spesso un affare di famiglia. Lo sanno bene i frequentatori delle mostre allestite a Palazzo Sarcinelli, sede che negli anni è diventata garanzia di eccellenza per i visitatori, un po’ come Palazzo Reale a Milano o le Scuderie del Quirinale: lì hanno potuto ripercorrere l’itinerario tra Venezia e l’istria di Vittore Carpaccio e del figlio Benedetto; o ancora l’evoluzione della dinastia dei Vivarini, dal gotico al Rinascimento. Quest’anno le sale del palazzo nobiliare di Conegliano ospitano il racconto di un’altra stirpe di artisti, i Ciardi: Guglielmo e i figli Beppe ed Emma, attivi tra ‘800 e ‘900, quando Venezia era già il luogo della nostalgia, e capitale dell’arte ormai Parigi.
Nato nel 1842, Guglielmo Ciardi era stato destinato dal padre contabile alla professione di notaio. È un amico di famiglia, l’illustratore Carlo Matscheg, a farlo deviare dalla facoltà padovana di Giurisprudenza verso l’accademia di Belle arti, nel sestiere di Dorsoduro. Qui impara il disegno e l’acquarello, si impratichisce copiando le vedute dei maestri settecenteschi e dipinge i primi paesaggi all’aperto (o come dicono in Francia: en plein air). Nel 1868 è a Firenze, preceduto da una lettera di presentazione scritta da Federico Zandomeneghi per Telemaco Signorini, che gli permette di frequentare il gruppo dei Macchiaioli, seduti a un tavolo del Caffè Michelangelo; poi si sposta a Roma e in Campania, dove dipinge vedute di Capri, Salerno e Sorrento.
Di nuovo a Venezia, rientra all’accademia dove insegna alla Scuola di vedute di paese e di mare; alle escursioni in laguna e sulle Dolomiti — ne sono prova panorami di montagna come Cimon della Pala e San Martino di Castrozza — alterna viaggi nelle grandi città europee, da Bruges a Londra, da Parigi a Berlino: qui la sua tela Messidoro ottiene la medaglia d’oro all’esposizione internazionale del 1886.
Quando muore, nel 1917, i suoi scorci del Canale della Giudecca e della campagna trevigiana bagnata dal fiume Sile fanno parte delle più importanti gallerie italiane. E due dei suoi quattro figli, formatisi alla sua bottega in campo San Barnaba, sono pittori affermati. Beppe, il più grande (1875-1932), talento precoce, prova anche la via del ritratto femminile, ma presto rientra nel solco familiare privilegiando le vedute campestri. Emma (1879-1933) eredita dal padre oltre alla passione per la pittura anche quella per i viaggi; portando sempre con sé il bagaglio veneziano. E così nel 1900 vende una Veduta del Canal Grande a Praga e poco dopo una Casa del Tintoretto all’esposizione di belle arti di Torino.
Se Beppe è affascinato dai nuovi linguaggi, e subisce l’influenza del divisionismo di Segantini, la sorella torna invece al vedutismo «puro», di gusto settecentesco, proprio da dove il padre Guglielmo, studente di talento all’accademia, aveva cominciato eseguendo copie dei vecchi maestri. Anche nel privato, del resto, i Ciardi non vanno sempre d’accordo: «La convivenza famigliare rivela qualche crepa», scrive Giandomenico Romanelli, per l’opposizione dei parenti al matrimonio di Beppe con la modella Emilia Rizzotti: «Troppo giovane, troppo povera e troppo estranea all’ambiente e ai livelli culturali e sociali conseguiti dai Ciardi».
Emma invece resterà per sempre nubile. Invecchia accanto all’adorato nipote Francesco Pasinetti (1911-1949), pioniere di una nuova forma d’arte: il cinematografo. Documentarista, regista, sceneggiatore e critico, è anche autore della prima Storia del cinema in Italia, diventata un classico. Le sue formidabili immagini di Venezia negli anni Trenta, messe accanto alle vedute del nonno Guglielmo, sembrano i capitoli dello stesso album di ricordi.
Generazioni
Poi ci sarà il nipote Francesco Pasinetti, documentarista: la sua estetica vicina al nonno