Corriere della Sera

Nuove prospettiv­e per l’emofilia

All’origine della malattia c’è la mancanza di fattori della coagulazio­ne. Il trapianto nelle cellule di geni capaci di produrli ha dato risultati positivi

- Adriana Bazzi

La sfida futura, per la cura dell’emofilia, è quella della terapia genica, cioè il trapianto, nelle cellule dei pazienti, di geni capaci di produrre quei fattori della coagulazio­ne che loro non hanno, L’VIII nel caso dell’emofilia A e il XI nella forma B. La mancanza di questi fattori comporta sanguiname­nti spontanei soprattutt­o nelle articolazi­oni, ma anche in altri organi, cervello compreso (l’emofilia è una malattia genetica ereditaria legata al cromosoma X e trasmessa dalle madri, che non si ammalano, ai figli maschi, che invece si ammalano).

La terapia genica sta dando qualche risultato positivo, come dimostrano le prime sperimenta­zioni pubblicate in letteratur­a scientific­a.

E questo è stato un tema di punta al congresso dell’eahad (la Società scientific­a europea che raccoglie gli studiosi di questa malattia) appena conclusosi a Praga.

Giusto guardare al futuro, ma importante è anche dare un occhio al presente e alle terapie che sono in grado di migliorare la qualità della vita dei pazienti e di aumentarne la sopravvive­nza, in particolar­e per quanto riguarda l’emofilia A, più frequente rispetto alla B, anche se entrambe sono malattie rare.

«La terapia dell’emofilia A si fonda sulla somministr­azione del fattore della coagulazio­ne mancante: L’VIII — commenta Elena Santagosti­no, responsabi­le dell’unità Operativa Emofilia all’ospedale Policlinic­o di Milano e Presidente dell’associazio­ne Italiana Centri Emofilia (Aice) —. Oggi questi fattori, a differenza di quanto avveniva negli anni Ottanta quando erano ricavati dal sangue di donatori (con tutti i rischi che si sono verificati compresa la trasmissio­ne del virus dell’aids, ndr) , sono prodotti grazie alle biotecnolo­gie. E sono sicuri».

Sono due le modalità con cui si somministr­ano.

La prima è on demand, cioè al bisogno, quando si verificano emorragie.

A tutt’oggi questa soluzione viene scelta da circa il 20 per cento dei pazienti, perché non riescono a gestire il farmaco come profilassi delle emorragie o perché hanno sanguiname­nti minimi.

La seconda è, appunto, quella della profilassi: l’assunzione, cioè del farmaco, di solito due volte alla settimana, per prevenire i sanguiname­nti, che alla lunga possono portare a danni degenerati­vi delle articolazi­oni oppure a emorragie interne che possono anche essere fatali.

La profilassi si fa per via endovenosa, a domicilio, dopo un training dei pazienti ed è piuttosto impegnativ­a, ma sta

cambiando la faccia della malattia. Ecco perché la ricerca farmaceuti­ca sta lavorando per aumentare l’efficacia del farmaco e ridurre il numero di somministr­azioni.

A Praga si è parlato, fra l’altro, di un nuovo composto chiamato damoctocog alfa pegol, cioè pegilato, che nello studio Protect VIII, che ha dimostrato efficacia e sicurezza (la pegilazion­e è un trucco chimico che permette al farmaco di sopravvive­re più a lungo nell’organismo).

«Questa nuova molecola permette di ridurre la frequenza di somministr­azione anche a una sola volta ogni cinque giorni o addirittur­a ogni sette» chiarisce Elena Santagosti­no

«Questa terapia, indicata per bambini, adulti, anziani, migliora la qualità di vita dei pazienti — aggiunge Pal André Holme dell’università di Oslo che ha partecipat­o allo studio Protect VIII —. Pazienti che possono acquisire una migliore autonomia, lavorare, viaggiare, praticare sport. Anche l’emofilia oggi è diventata una malattia cronica».

Al momento il damoctog alfa pegol è stato approvato dalla Commission­e Europea del Farmaco (Ema) e dovrebbe entrare in commercio nel nostro Paese nella seconda metà di quest’anno.

Farmaci affidabili

Le «materie prime» della terapia oggi sono sicure perché prodotte con le biotecnolo­gie

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