Nuove prospettive per l’emofilia
All’origine della malattia c’è la mancanza di fattori della coagulazione. Il trapianto nelle cellule di geni capaci di produrli ha dato risultati positivi
La sfida futura, per la cura dell’emofilia, è quella della terapia genica, cioè il trapianto, nelle cellule dei pazienti, di geni capaci di produrre quei fattori della coagulazione che loro non hanno, L’VIII nel caso dell’emofilia A e il XI nella forma B. La mancanza di questi fattori comporta sanguinamenti spontanei soprattutto nelle articolazioni, ma anche in altri organi, cervello compreso (l’emofilia è una malattia genetica ereditaria legata al cromosoma X e trasmessa dalle madri, che non si ammalano, ai figli maschi, che invece si ammalano).
La terapia genica sta dando qualche risultato positivo, come dimostrano le prime sperimentazioni pubblicate in letteratura scientifica.
E questo è stato un tema di punta al congresso dell’eahad (la Società scientifica europea che raccoglie gli studiosi di questa malattia) appena conclusosi a Praga.
Giusto guardare al futuro, ma importante è anche dare un occhio al presente e alle terapie che sono in grado di migliorare la qualità della vita dei pazienti e di aumentarne la sopravvivenza, in particolare per quanto riguarda l’emofilia A, più frequente rispetto alla B, anche se entrambe sono malattie rare.
«La terapia dell’emofilia A si fonda sulla somministrazione del fattore della coagulazione mancante: L’VIII — commenta Elena Santagostino, responsabile dell’unità Operativa Emofilia all’ospedale Policlinico di Milano e Presidente dell’associazione Italiana Centri Emofilia (Aice) —. Oggi questi fattori, a differenza di quanto avveniva negli anni Ottanta quando erano ricavati dal sangue di donatori (con tutti i rischi che si sono verificati compresa la trasmissione del virus dell’aids, ndr) , sono prodotti grazie alle biotecnologie. E sono sicuri».
Sono due le modalità con cui si somministrano.
La prima è on demand, cioè al bisogno, quando si verificano emorragie.
A tutt’oggi questa soluzione viene scelta da circa il 20 per cento dei pazienti, perché non riescono a gestire il farmaco come profilassi delle emorragie o perché hanno sanguinamenti minimi.
La seconda è, appunto, quella della profilassi: l’assunzione, cioè del farmaco, di solito due volte alla settimana, per prevenire i sanguinamenti, che alla lunga possono portare a danni degenerativi delle articolazioni oppure a emorragie interne che possono anche essere fatali.
La profilassi si fa per via endovenosa, a domicilio, dopo un training dei pazienti ed è piuttosto impegnativa, ma sta
cambiando la faccia della malattia. Ecco perché la ricerca farmaceutica sta lavorando per aumentare l’efficacia del farmaco e ridurre il numero di somministrazioni.
A Praga si è parlato, fra l’altro, di un nuovo composto chiamato damoctocog alfa pegol, cioè pegilato, che nello studio Protect VIII, che ha dimostrato efficacia e sicurezza (la pegilazione è un trucco chimico che permette al farmaco di sopravvivere più a lungo nell’organismo).
«Questa nuova molecola permette di ridurre la frequenza di somministrazione anche a una sola volta ogni cinque giorni o addirittura ogni sette» chiarisce Elena Santagostino
«Questa terapia, indicata per bambini, adulti, anziani, migliora la qualità di vita dei pazienti — aggiunge Pal André Holme dell’università di Oslo che ha partecipato allo studio Protect VIII —. Pazienti che possono acquisire una migliore autonomia, lavorare, viaggiare, praticare sport. Anche l’emofilia oggi è diventata una malattia cronica».
Al momento il damoctog alfa pegol è stato approvato dalla Commissione Europea del Farmaco (Ema) e dovrebbe entrare in commercio nel nostro Paese nella seconda metà di quest’anno.
Farmaci affidabili
Le «materie prime» della terapia oggi sono sicure perché prodotte con le biotecnologie