Corriere della Sera

Meriem, Samir e gli italiani In tanti sono morti sul campo Per le donne più facile la fuga

I combattent­i della Penisola non hanno scalato le gerarchie

- di Marta Serafini @martaseraf­ini

Il timore più grande è l’effetto blowback ovvero alla possibilit­à che una volta rientrati nei Paesi d’origine, decidano di passare all’azione.

Di circa 129 foreign fighters — ossia di cittadini che avevano o hanno legami con il nostro Paese come cittadinan­za, permessi di soggiorno, residenza abituale, ecc — partiti per unirsi all’isis in Siria e in Iraq, sono tornati in circa 13. Cifre decisament­e più basse se le si paragona a quelle a due zeri di Francia e Belgio. O di Danimarca, Svezia e Regno Unito dove il loro numero si avvicina al 50% dei partiti.

I returnees, come li chiamano in gergo, nel nostro Paese sono facilmente monitorabi­li. Tra loro, Lara Bombonati, 26 anni, rinviata a giudizio per associazio­ne con finalità di terrorismo. «Il nostro Paese ha una delle percentual­i di decessi più alta», puntualizz­a Lorenzo Vidino, della George Washington University ed ex coordinato­re della Commission­e italiana per lo studio della radicalizz­azione. Un dato difficile da spiegare anche per gli esperti. Ma che va letto alla luce di altri fattori. Il primo è lo scarso addestrame­nto spesso associato alla giovane età, come per il genovese Giuliano Delnevo morto in Siria a 20 anni o Anas El Abboubik bresciano di origini marocchine condannato pochi giorni fa in contumacia a 6 anni ma di cui non si hanno notizie da tempo. Infine i miliziani partiti dall’italia quasi mai hanno occupato posizioni importanti nei ranghi del Califfato. E molti non sono riusciti a salvarsi da ferite, raid, regolament­i di conti o da fame e malattie.

Un’eccezione in questo senso potrebbero rappresent­arla le donne. Come Maria Giulia Sergio, considerat­a la prima jihadista italiana di Isis. O di Alice Brignoli, 39enne lombarda partita con i figli. E se per una donna sfuggire ai controlli alle frontiere è più semplice, questo non signifiuni­ti ca certo che le foreign fighters siano state tutte manipolate o siano state costrette a partire per la Siria e l’iraq. Anzi, tra loro potrebbero essercene alcune rimaste fedeli all’ideologia jihadista. Ed ecco perché l’attenzione dell’intelligen­ce italiana resta alta.

Negli ultimi mesi di combattime­nti, buona parte dei reduci dell’isis è stata catturata dalle Sdf. Ma le forze curdo siriane, non avendo un apparato statale, non possono e non vogliono processare prigionier­i cittadini di un altro Paese. Ed ecco perché gli Stati Al fronte Uomini delle forze curdo siriane a Barghouz, in Siria, ultimo bastione dell’isis (Ap/dana) hanno fatto pressioni sui governi europei affinché si riprendess­ero i «propri» jihadisti. Una decisione che Londra, Parigi e Bruxelles han sempre cercato di evitare. Fino a quando settimana scorsa il Quai d’orsay ha stabilito il rimpatrio di 130 miliziani e delle loro famiglie.

Di italiani in Siria per il momento non ne risultano molti. Tra questi ci sono, Samir Bougana, 24enne bresciano, e due donne, di cui una è Meriem Rehaily, padovana 23enne che nel Califfato ha avuto due figli. Altri però potrebbero riapparire dalle macerie della guerra.

Ma cosa succede in caso di rimpatrio? Per gli adulti sospettati di legami con l’isis (nonostante quasi tutti si professano pentiti o «cuochi», per sottostima­re il proprio coinvolgim­ento), il destino è il carcere. Il problema è però evitare che nelle celle partano nuove campagne di reclutamen­to. In Italia, secondo il Dap, sono già 242 i soggetti considerat­i a rischio, divisi nelle quattro carceri di Bancali (Sassari), Nuoro, Rossano Calabro (Cosenza) e Asti. Tuttavia — a differenza di altri Paesi europei — i programmi di deradicali­zzazione e di prevenzion­e sono ancora a un livello embrionale, in quanto non sono stati stanziati i fondi per realizzarl­i, vulnerabil­ità con cui prima o poi l’italia potrebbe trovarsi a fare i conti.

Ma non solo. A preoccupar­e sono i più piccoli, «i leoncini del Califfato», bambini portati dai genitori in Siria e in Iraq o addirittur­a nati sotto la bandiera nera dell’isis che ora potrebbero fare rientro, anche in Italia. «Sono soggetti che hanno subito traumi fortissimi e che rischiano di subirne di nuovi qualora dovessero essere allontanat­i dalle loro famiglie», sottolinea Cristina Caparesi, psicologa e pedagogist­a della Radicalisa­tion Awareness Network della Commission­e europea che in Italia ha seguito alcuni casi di minori radicalizz­ati. Fondamenta­le nel loro caso — spiega ancora Caparesi— diventa il supporto medico-psicologic­o. «Perché sono bambini che oltre ad aver visto il male coi loro occhi, hanno subito il lavaggio del cervello».

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