La lingua riscritta dai nuovi italiani
Un progetto raccoglie i diari dei migranti Dalla storia di Azzurra, discriminata nella sua terra di origine perché albina, alle battaglie di Ametovic per il lavoro di origini ivoriane, 31 anni di origini albanesi, 34 anni
ilivoje Ametovic fugge dalla sua Serbia in fiamme a metà degli anni 90. Raggiunge l’italia, si arrangia come può, quindi viene assunto da un’azienda toscana. Finalmente riesce a riunire qui la famiglia, a ricomporre una traccia di normalità. Poi, nel 2011, il tracollo: un datore di lavoro disonesto, l’impiego perso a causa di leggi malfatte, che non tutelano tutti. Ametovic comincia a scrivere un diario e annota: «Sono nato nei tempi sballati dove ce poco spazzio per deboli e indifesi... Credo che posso chiudere la mia valigia perché in partenza era piena di speranza e voglia di essere acetato? Oggi vorrei solo un po’ di dolcezza per cancellare il sapore amaro di queste continue d’eluzioni».
I nuovi italiani non sono senza voce. Proprio come gli emigranti siciliani o veneti che nel secolo scorso raggiungevano l’america o l’australia e affidavano a diari e lettere un intimo racconto di vita e di migrazione, anche molti dei serbi, dei marocchini, degli albanesi e dei ghanesi che approdano in Italia per restarvi sentono il bisogno di una memoria scritta. Soprusi, piccole vittorie, speranze o quotidiane ingiustizie fissate sulla carta in un italiano che pare un esperanto dei nostri tempi: l’incertezza sintattica (come nel diario di Ametovic), l’errore, insomma, si trasfigura in un’espressività che commuove, perché questa scrittura è dettata da un’urgenza superiore, generata dalle difficoltà di tutti i giorni. Dall’essere accettati a scuola al sopportare gli insulti dei razzisti fino alla dolcezza di un abbraccio inaspettato.
Un idioma originale
Queste memorie fanno parte di un progetto denominato DIMMI (Diari Multimediali Migranti) promosso da alcune istituzioni toscane tra le quali l’archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, in provincia di Arezzo. L’archivio fondato da Saverio Tutino compie 35 anni e raccoglie quasi ottomila testimonianze scritte (diari, lettere e annotazioni) di italiani comuni, persone (tanti i semi-analfabeti) che hanno deciso di raccon- tarsi. Molti di questi, naturalmente, fanno parte di quell’esercito di emigranti che lasciarono l’italia e che nella scrittura trovarono una chiave per preservare il ricordo o per fissare le conquiste quotidiane. Ma oggi l’italia si trova ad accogliere — a sua volta — migliaia di persone in fuga da altri Paesi. Le quali, a modo loro, scrivono la storia.
Forma espressiva
Abbiamo capito che se non lottavamo la fine del nostro sogno sarebbe stato drammatico. Un gruppo composto da 13 nigeriani, quattro ghanesi, un gambiano, un maliano ed io abbiamo riunito le nostre forze e le nostre idee per resistere contro un sistema che consisteva nell’abbandonare i migranti dopo averli registrati. La loro intenzione era quella di gettarci sulla strada. Allora ci siamo organizzati.
Scorrendo le pagine di queste testimonianze si scoprono storie molto diverse tra loro eppure accomunate dalla ricerca di una forma espressiva originale, lontana dagli stereotipi frequenti in chi l’italiano lo usa abitualmente. Azzurra, per esempio, scrive: «Sono un’africana nigeriana nata il ventesimo giorno di novembre del 1997 dopo un pesante scatenamento di rabbia da parte della pioggia sulla terra, e ci tengo a dire che sono una sopravvissuta dell’albinismo». Nella sua terra d’origine gli albini sono perseguitati, a volte sacrificati in nome di rituali legati a credenze ancestrali. E così, nonostante sia nata in una famiglia agiata, Azzurra e i suoi sono stati costretti più volte a cambiare città.
Poi, un giorno, la ragazza viene rapita, costretta ad attraversare il deserto fino in Libia, quando uno dei suoi aguzzini, pentito, decide di farla arrivare in Italia. «Fui congedata e portata in un campo a Palermo in Sicilia, dove rimasi per una settimana con altre persone che erano arrivate in Italia come rifugiati come me. Si presero cura di me, mi continuarono a medicare finché mi hanno trasferita italiano è evidente nelle testimonianze di tutte queste persone. La dimestichezza con le regole sintattiche (difficile da raggiungere) e persino con l’accento del luogo dove si risiede a volte è utile ad allontanare bullismo e discriminazione. Ma tutto questo non è servito a Quaisera Gulnaz, pachistana arrivata in Italia nel 1994 e subito «presa di mira» dai compagni di classe e dai professori. Addirittura,
Arrivata a Caravaggio dovetti scontrarmi con i pregiudizi della gente del posto. La presso il mia iscrizione liceo del paese fu malgrado, rifiutata per legge, ci fosse scolastico fino l’obbligo ai 15 anni e io ne avessi quindi pienamente della diritto. Il Preside scuola, dopo avermi sostenere fatto gli esami di inglese mi disse che e italiano, non poteva accettare la mia iscrizione poiché non ero in possesso del permesso di soggiorno. all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle, Quaisera si è sentita apostrofare «talebana» da uno dei suoi insegnanti. «Non sapevo parlare italiano e poi gli altri non riuscivano ad accettarmi — scrive —: facevo di tutto per essere notata, divenni un giorno anche il giocattolo per gli altri, obbedivo ad ogni ordine come un burattino».
C’è anche chi scappa da una situazione familiare durissima, come l’albanese Aleksander Hysa, nato nel 1996. «Ho deciso di venire in Italia da molto tempo fa, perché i miei rapporti con mio padre non erano buone. Ho parlato con la mia famiglia e ho detto che andro in Italia e basta. Con mio padre non funzionano le cose tra noi, lui ha iniziato da bere, e era violento con me e con tutti, mi tratava male... Nessuno dei miei amici non è partito per l’italia come me. Non ho seguito nessuno l’esempio di qualcuno». In Italia Aleksander ha trovato una casa, ma sul diario precisa: «Non so come finirà».
Testimonianze dove l’errore si trasfigura in un’espressività che commuove: questa scrittura è dettata da un’urgenza superiore