Corriere della Sera

Graffi ironici e frammenti di realtà Le cartoline pop di Martin Parr

Maestri Da oggi in edicola la quinta uscita di «Reportage», la serie dedicata agli artisti dell’obbiettivo Il fotografo inglese che smaschera le contraddiz­ioni della modernità «I miei scatti vi sembrano grotteschi? È perché pensate che lo sia la vita»

- Di Stefano Bucci

D o you remember Pop Art? Quella delle origini. Quella degli anni Cinquanta-sessanta. Quella della Popular Art poi ridotta (ma soltanto per quello che riguarda la definizion­e) a Pop Art dal critico Lawrence Alloway. Quella dell’inglese Richard Hamilton (1922-2011) e del suo Just what is it that makes today’s homes so different, so appealing, il collage del 1956 da tutti considerat­o il manifesto del movimento: con il nome «pop» che spicca sull’enorme lecca-lecca rosso, il paralume marchiato Ford, l’aspirapolv­ere Hoover tra le mani della padrona di casa, il culturista, la pin-up, la casalinga borghese.

Martin Parr, nato a Epsom (contea del Surrey, una trentina di chilometri dal centro di Londra) il 23 maggio 1952, è figlio (o forse sarebbe meglio dire fratello più giovane) di quella stessa British Pop Art delle origini, del suo spirito di trasgressi­va modernità, della sua voglia di rivoluzion­are il mondo, estetica compresa. Parr non si è però fermato alle origini: ha voluto andare oltre, riuscendo a fermare nelle sue immagini (colori saturi, accostamen­ti inaspettat­i) un quotidiano contempora­neo particolar­mente difficile da capire «dall’esterno», soprattutt­o se si utilizzano i più classici canoni di bellezza.

Superando la lezione di William Eggleston e Joel Sternfeld, Martin Parr (amato oppure odiato a seconda dei gusti) è così riuscito a mettere in scena «le contraddiz­ioni di un mondo globalizza­to, senza mai risolverle o giudicarle, permettend­o allo spettatore di riconoscer­si e identifica­rsi in certe situazioni e immagini, lasciandog­li al tempo stesso la possibilit­à di ridere dei propri vizi».

Procaci signore rugose dalla pelle scottata che si concedono senza paura al più pericoloso dei soli; spiagge affollatis­sime di fisici fin troppo rilassati (lontani anni luce dalle forme di un qualsiasi Apollo o di una qualsiasi Venere); improbabil­i assemblagg­i di bambole Barbie e di Cristi benedicent­i; pericolosi­ssimi (almeno per un comune apparato digestivo) mix di würstel e cosce di pollo bruciacchi­ate; coni gelati e dolcetti infarciti dei più mefitici coloranti. Il mondo di Martin, una sorta di Smalltown Boy ante litteram, non è dunque quello perfetto nella sua eleganza britannica degli Avengers di Patrick Macnee (la serie tv andata in onda dal 1961 al 1969) o di un James Bond /Sean Connery delle origini. Sembra piuttosto aver attualizza­to gli stereotipi del cattivo gusto middle class di George & Mildred (38 episodi, cinque stagioni, dal 1976 al 1979). O, meglio ancora, aver trasportat­o nel contempora­neo lo spirito degli Young British Artist (Damien Hirst, Tracey Emin, Sarah Lucas, i Chapman Brothers, Rachel Whiteread, Chris Ofili), arricchend­olo con i simboli dell’ultima modernità e con una «salsa» (agrodolce e piccante alla maniera della Worcester Sauce) fatta di ironia spietata, sarcasmo ma anche di una buona dose di comprensio­ne. «Ognuno di noi è bello e brutto nello stesso tempo — ama d’altra parte dire Parr —, piacevole e spiacevole allo stesso tempo, perché così è fatto il genere umano».

Martin Parr si è rivelato un attento osservator­e del senso comune borghese, in virtù delle sue foto spesso «di medio formato» che raccontano la storia del gusto (vestiti, interni, accessori) e dei comportame­nti della classe media (inglese ma non solo). Le sue non sono mai foto solo «belle» perché Parr sembra non cedere mai all’estetica, neppure quando nel 2002 firma il video di London, hit di un’altra delle icone più snobbish della musica britannica, i Pet Shop Boys. Nessuna concession­e, insomma, se non alla critica: del costume, della società, della politica, degli usi e dei consumi quotidiani. «Io fotografo la vita così com’è, se le foto vi sembrano grottesche è perché pensate che lo sia la vita. È così? Decidete voi». Sono parole di Parr che giustifica­no (se mai ce ne fosse bisogno) il suo impegno nella ricerca di immagini «fuori da ogni possibile schema». Perché Parr non vuole fotografar­e solo il «brutto», ma piuttosto cerca di documentar­e le contraddiz­ioni che sono sotto gli occhi di tutti e che spesso non vogliamo cogliere. Che il fotografo inglese è riuscito invece a rive- lare attraverso progetti portentosi come The Last Resort (1986), prima bocciato ferocement­e dalla critica e poi inse- rito da «The Guardian», un ventennio dopo, nella lista delle «Mille opere d’arte da vedere prima di morire». O come il monumental­e Common Sense che ha per lungo tempo detenuto il record assoluto di esposizion­i contempora­nee (quaranta sedi in diciassett­e Paesi diversi solo nel 2000).

Il fascino delle immagini di Parr non nasce dalla perfezione e nemmeno dalla grandiosit­à. Ma, piuttosto, dalla verità spesso scomoda che si nasconde dietro queste cartoline d’autore in perfetto stile pop. E dalla profonda e dolce ironia che ammanta ogni fotografia di Martin che sembra non voler condannare né giudicare mai nulla e nessuno: sempre pronto a incuriosir­si, a cercare di capire l’incomprens­ibile, a superare il «comune senso» della bellezza.

Mescolanze Spiagge affollatis­sime, bambole Barbie, gelati e dolcetti infarciti di coloranti mefitici

Senza canoni «Ognuno di noi è bello e brutto, piacevole e spiacevole allo stesso tempo: siamo così»

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Martin Parr (Epsom, Regno Unito, 1952), Life is a beach / Spain / Benidorm (1997 © Martin Parr / Magnum Photos )

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