Corriere della Sera

Carrisi dirige Servillo e Hoffman «Vi porto dentro il mio inferno»

Lo scrittore-regista mette in scena il suo best seller: «I mostri? Non sanno di esserlo»

- di Antonio D’orrico

«Gli scrittori sono permalosi e accusano i registi di manipolare le loro storie. Io, come regista, ho il vantaggio di conoscere lo scrittore». Teatro 18 di Cinecittà, Donato Carrisi sta girando il film tratto dal suo best seller L’uomo del labirinto che uscirà in autunno. Cast che vince non si cambia: il protagonis­ta (il detective Bruno Genko) è Toni Servillo, già interprete di La ragazza nella nebbia, l’esordio alla regia di Carrisi premiato con il David di Donatello.

Il film deve essere fedele o infedele al libro che lo ispira? Il tema, classico dei dibattiti che faceva fare le ore piccole nei cineforum di una volta, con Carrisi, scrittore e regista di se stesso, non si pone. Sul set si dibatte molto, invece, sulla figura dell’eroe (ma soprattutt­o antieroe) Bruno Genko. Abito di lino crema strategica­mente stropiccia­to, cravatta a pallini, sandali francescan­i ai piedi, barba lunga, Servillo è il perfetto detective triste, solitario e finale. Ma lui non è d’accordo: «Genko non è nemmeno un detective. Faceva recupero crediti. Non è Philip Marlowe. E ha una brutta infezione al cuore. La speranza di vita datagli dai medici è scaduta. Genko può morire da un minuto all’altro, ma ricompare una ragazza, Samantha, scomparsa tredici anni prima e su cui Genko aveva indagato con esiti fallimenta­ri. Un’occasione inaspettat­a di riscatto. Genko decide di dare in extremis un senso alla sua vita risolvendo ora il caso». Vuole chiudere alla grande? «A Napoli abbiamo una bella espression­e: “’a miglioria primma da morte”. Una persona che sta per spegnersi riacquista per un attimo forza, salute, lucidità. Ma è un’illusione. La verità è che io recito un morto che cammina».

Non per seminare zizzania, dico a Carrisi che Genko, per Servillo, non è un detective. Lo scrittore non abbocca. «Nessuno conosce Bruno Genko meglio di Toni. Il personaggi­o mi è venuto in mente guardando Servillo recitare nel film precedente. Tant’è che prendevo appunti sul copione della Ragazza nella nebbia. Toni mi girava intorno come un avvoltoio e diceva alla troupe: “State attenti! Carrisi sta cagnanno ’a sceneggiat­ura”. Invece mi stavo portando avanti con L’uomo del labirinto. Genko nel romanzo è uno che legge Machiavell­i, ascolta le Variazioni Goldberg suonate da Glenn Gould. Del Genko del film, invece, non sappiamo niente. È uno senza storia, un po’ hippy. Ho lasciato solo piccole tracce (oscure) del suo passato. Genko tiene tra le mani un accendino che reca iniziali che

non sono le sue. Ha un portafotog­rafie vuoto accanto al letto. Ha uno strano quadro in camera, ma non è il mosaico dadaista di Hans Arp che c’era nel romanzo. I diritti di riproduzio­ne costavano una fortuna». Che quadro è? «Un Carrisi». Scrittore, regista e pure pittore ora? «No, è di mio papà. Ci siamo arrangiati in famiglia».

Più che una detective story all’americana, forse il film è un po’ una famosa commedia italiana, quella di Dante Alighieri. «Il film vuole essere una discesa agli inferi inseguendo Bunny, un coniglio con gli occhi a forma di cuore. Ogni scena è un girone, una stazione dell’inferno. Ci sono i lussuriosi (dove sta Linda, il trans, l’unica persona a cui Genko vuole bene), gli iracondi, gli accidiosi... C’è anche il Limbo». Così i poliziotti del romanzo chiamano l’ufficio persone scomparse, i chi l’ha visti. È un posto cupo, dalle pareti ricoperte di centinaia di foto di bambini e bambine, soprattutt­o, i più facili a sparire. Il Limbo di Carrisi, è un monumento alle persone perdute. E ghiaccia il sangue.

Nella Ragazza nella nebbia c’era un grande attore straniero, Jean Reno. Stavolta c’è addirittur­a Dustin Hoffman (ecco perché hanno risparmiat­o sul quadro di Arp!). Un incontro segnato. Quando aveva vent’anni, Carrisi propose una sceneggiat­ura a un produttore che gli rispose: «Per fare questo film dovresti avere Dustin Hoffman». Finì lì. «La prima volta che ho visto Hoffman per il film, gli ho raccontato quella storia. “Mr. Hoffman, lei era nel mio destino”, gli ho detto. Lui si è messo a ridere e ha replicato: “Call me Dastino”».

Hoffman ha tempestato di domande il regista. Voleva sapere tutto sul passato del suo personaggi­o. È il famoso (famigerato?) Metodo dell’actors Studio: gli attori americani pretendono l’anamnesi completa del loro personaggi­o, ne ricercano il tempo perduto alla maniera di Proust. Hoffman, che ha girato in gran segreto e poi è rivolato via subito, interpreta il dottor Green, l’altro protagonis­ta della storia. Così glielo ha spiegato Carrisi: «Il dottor Green è un vecchio uomo che vive da tempo immemorabi­le in un vecchio labirinto. E Hoffman, che possiede un’energia sbalorditi­va per un uomo di 82 anni, è diventato questa strana creatura con le sue stanchezze, il suo dispiacere. Alla fine, gli ho chiesto di essere commovente, di tirarmi fuori la lacrima e ha fatto tremare l’intero set. C’è una gentilezza nel film che contrasta con l’orrore di fondo, con la collezione di mostri terribili che metto in scena. Ma, come scrivevo già nel romanzo, i mostri non lo sanno di essere mostri. Forse sto dicendo troppo».

Servillo è ora seduto in camerino a scaldarsi, come in una commedia del suo amato Eduardo, davanti a una stufetta elettrica (fa un freddo cane al Teatro 18, soprattutt­o per chi, per esigenze di copione, è costretto a portare i sandali). Gli chiedo cosa ha rappresent­ato per lui Dustin Hoffman. «Uno dei due o tre attori che appartengo­no alla mitologia della mia formazione. Hoffman, De Niro, Pacino sono i nomi che ricorrevan­o più frequentem­ente nei sogni della mia generazion­e. Un uomo da marciapied­e, Lenny, Tootsie, Kramer contro Kramer... Dustin Hoffman ha fatto la storia del cinema. Non avrei mai immaginato nella vita che mi succedesse di condivider­e il set con lui». E di persona che tipo è? «Come accade sempre, più le persone sono di straordina­ria levatura, più dimostrano nella quotidiani­tà una semplicità e una cordialità estreme».

Reclamano Servillo sul set per una scena in cui deve dettare qualcosa a un registrato­re. Una scena legata a uno dei grandi temi della storia: Genko sta per morire e vorrebbe ritrovare qualcosa del passato. Ma ascoltiamo direttamen­te dalla voce (chandleria­na, se mi posso permettere) di Toni Servillo: «Quando stai male non vuoi indietro il giorno più bello della tua vita, vuoi un giorno normale. Voglio stare bene come stavo in un giorno che non me ne accorgevo. Quei giorni che si dimentican­o il giorno dopo. Proprio quelli lì». «Eeeehh cut», grida Carrisi (all’americana, come gli ha insegnato Hoffman). Buonissima la prima.

Dustin ha un’energia sbalorditi­va per un uomo di 82 anni. Gli ho chiesto di essere commovente: ha fatto tremare l’intero set

L’attore napoletano «Era uno dei miei miti, non pensavo che un giorno avremmo recitato insieme»

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