La Fortezza: così vicina, così lontana Rinata come «ospedale» per Cimabue
Non ha mai dovuto difendere la città. Qui la sede dell’opificio delle Pietre dure
«Il fattorino girava la puleggia e il manovratore smetteva di fumare, scampanellava, infilava la chiave del contatto, impugnava la manopola, via! Dalla strada di Careggi alla Fortezza da Basso: un viaggio che poi, a piedi, non era mai altrettanto lungo e pieno d’emozioni». E poi: «Intanto Metello, si trovava ammanettato, e questa volta non se la sarebbe cavata con una notte in guardina. I più li avevano chiusi alla Fortezza da Basso; lui e altri alle Murate». Ancora una volta è Vasco Pratolini, con le parole di Bruno, il protagonista de La costanza della ragione e di Metello, ad aver raccontato forse meglio di tutti cosa rappresentava (e cosa ancora in parte rappresenta) la Fortezza da Basso, per tutti solo «la Fortezza», per i fiorentini. Certo con più sentimento di quel Marchese de Sade che nel suo Voyage d’italie del 1775 senza tanto trasporto aveva parlato (più da militare che da libertino) «di un pentagono regolare, con tanto di bel fossato e cammino coperto».
Perché la Fortezza, in qualche modo, è sempre stata un luogo lontano, seppure vicinissimo al centro, ad un passo (ad esempio) da quella Piazza Indipendenza che ha fatto da palcoscenico alle Memorie
lontane di Guido Nobili (pubblicato nel 1916). Un luogo oscuro, un posto di confine, uno spazio sospeso che (dopo una certa ora e con l’avvicinarsi del buio) era sicuramente meglio non frequentare più di tanto. Perché nei giardini che le facevamo da «corona», progettati da Giuseppe Poggi nel 1865, attorno a quel vascone-laghetto-stagno con tanto di papere, cigni e pesci rossi, era sicuramente piacevole passeggiare (soprattutto per mamme, bambini, nonni) ma rigorosamente prima del tramonto. Perché con il buio il pubblico diventava meno raccomandabile anche se assai assiduo e numeroso.
E anche quando, dopo il definitivo abbandono da parte del demanio militare cui era rimasta a lungo affidata, la Fortezza sarebbe diventata la sede principale del polo fieristico fiorentino, sarebbe in fondo sempre rimasta un luogo diviso dalla città, separato anche fisicamente da una vera e propria cintura d’asfalto, quella della circonvallazione, di fatto impossibile da superare. Fino a quando, non vi si sarebbero insediati i laboratori di restauro: uno spostamento in qualche modo forzato, a seguito dell’alluvione del 1966, per poter lavorare nelle migliori condizioni al recupero dei materiali cartacei, dei tessuti e delle sculture lignee (di grande e grandissimo formato soprattutto) danneggiati dalle acque. Sarebbe così stata proprio la Fortezza a diventare l’ospedale della Croce dipinta di Cimabue, proveniente da Santa Croce.
Un modo, quello del restauro, per recuperare l’antica storia di una Fortezza costruita tra il 1534 e il 1537 per volere di Alessandro de’ Medici su progetto di Antonio da Sangallo il Giovane con lo scopo di fortificare la città di Firenze, dare alloggio alle truppe e rifugio ai governanti in caso di rivolta. E se la Fortezza non ha, all’apparenza, nulla a che vedere con le altre splendide opere medievali e rinascimentali di Firenze (Palazzo Vecchio, Duomo, Santa Croce) questo non riduce la maestosità della struttura e al suo valore architettonica. Quella di un edificio militare mai completamente testata a fondo, visto che la Fortezza non ebbe mai modo di difendere la città dall’attacco dei nemici.
Alla scoperta della Cannoniera, della sala della Scherma, della sala d’armi, della sala delle Grotte, della sala Ottagonale, considerata un capolavoro di progetto rinascimentale (militare e non solo) con la sua copertura a volta con otto vele, realizzata con la tecnica dei mattoni posizionati a «spina di pesce», la medesima utilizzata dal Brunelleschi, sempre a Firenze, per la cupola della Cattedrale di Santa Maria del Fiore. Un viaggio, quello verso la Fortezza, ai confini della città lontana eppur vicinissima, alla ricerca delle emozioni che provava Bruno, sul tram numero 28, che da Careggi arrivava fino alla Stazione.
Il capolavoro
La Sala Ottagonale ha una copertura a spina di pesce che ricorda la cupola del Brunelleschi