«Cara mamma, che vuoto senza i tuoi racconti»
C’era un rospo, in giardino. Mia madre lo chiamava Frittatina. Compariva certe sere d’estate. Ma io non me lo ricordo, mi ricordo di lei che ne parlava. Come ricordo che ogni mattina, a colazione, mi raccontava il film che aveva visto in tv la sera prima. E così mi insegnava la narrazione, mi aiutava ad usare l’immaginazione per farmi un’idea dei personaggi e del paesaggio. A scuola ero brava, penso anche per merito di queste colazioni non frettolose che rimpiango. Mia mamma era una casalinga, aveva tutto il tempo per convincermi che ero bella e intelligente, e che il mondo traboccava di cose interessanti da scoprire. Ma lei non era felice, e mi ha insegnato anche questo, o
me l’ha passato con qualche elica di Dna. Poi sono arrivati gli anni della depressione, dell’ipocondria. E ancora quelli delle ambulanze, delle fratture. Fino a una fase positiva in una Rsa, che ha restituito anni «normalità». Quando la penso, la penso lì. Non a casa con le tapparelle abbassate, in camicia da notte, ostile e scura in volto. La penso diritta ed elegante camminare col suo deambulatore, nel quale portava la borsetta, quasi passeggiasse in centro. La penso seduta al lussuoso salone del bar, con un giornale sul tavolino, ad aspettarmi. Che vuoto, ora che è morta. Era il 7 agosto, aveva 92 anni. Si chiamava Vera Struffi.