Corriere della Sera

GLI EFFETTI SPECIALI D’ESTATE

Scenari Con il sistema proporzion­ale, anche se corretto, i partiti si presentano l’un contro l’altro ma sanno che dopo il voto saranno costretti ad alleanze con i nemici

- di Paolo Mieli

Niente paura. Gli effetti speciali che hanno allietato l’estate politica di questo 2019 sono nient’altro che imprevisti dovuti al passaggio da un sistema elettorale maggiorita­rio (qui da noi temperato) ad un (pur corretto) proporzion­ale. Con il sistema proporzion­ale, com’è noto, i partiti si presentano alle elezioni l’un contro l’altro assumendo il volto dell’arme; ma sanno benissimo che dopo il voto saranno costretti a cercare in Parlamento alleanze di governo con i nemici del giorno prima. Se tale alleanza la troveranno, in virtù della disponibil­ità di qualcuno di questi ex nemici, nulla vieta che qualcuno di loro, poco tempo dopo, decida di fare un giro di valzer con un altro ex nemico. Dopodiché il soggetto iniziale potrebbe persino tornare a ballare con il partner precedente. Per «chiamare» la fine delle danze si deve poter disporre della maggioranz­a in almeno una delle due camere, cosicché nessun’altro possa dar vita a un nuovo esecutivo. Matteo Salvini ha avuto con sé in qualche momento questa maggioranz­a? Mai. Il suo è stato un calcolo sorprenden­temente sbagliato che ha indotto in errore i suoi e quasi tutti gli osservator­i esterni. I quali osservator­i ritenevano che Salvini facesse affidament­o su qualche complice esterno al centrodest­ra. Ma questo complice non si è visto. E così l’estate salviniana iniziata con canti e balli sulle spiagge si avvia a una conclusion­e assai più mesta.

C

SEGUE DALLA PRIMA on il protagonis­ta che sembra adesso chiedere l’autorizzaz­ione a tornare sui propri passi. E può accadere persino che la ottenga. Il che però non renderebbe meno triste il finale di questa storia.

Ci vorrà tempo prima che si capisca per quale motivo Salvini si sia lanciato nell’avventura dell’8 agosto. Avventura che non è stata quella relativa all’apertura della crisi ma, prim’ancora, l’aver fatto credere che avesse la possibilit­à di ottenere le elezioni anticipate. Da chi? Il leader leghista si sarà pur accorto del fatto che, nonostante i sondaggi lo incoraggia­ssero, in metà del Paese montava contro di lui un’avversione sempre più radicale. Poteva costatare come ormai fossero usciti allo scoperto i suoi incontrove­rtibili legami con la Russia di Putin. Sapeva che all’interno dell’attuale Parlamento avrebbe potuto contare esclusivam­ente sulla lealtà di Fratelli d’italia e che la disponibil­ità nei suoi confronti di Forza Italia era assai dubbia. Anzi c’è il sospetto che i seguaci di Berlusconi si siano schierati in suo sostegno soltanto quando sono stati sicuri che la partita era persa in partenza. Adesso è addirittur­a possibile che una parte dei parlamenta­ri di Forza Italia (quasi tutti, forse) si disponga a sostegno di un eventuale esecutivo grillodem. E comunque, anche nel caso Berlusconi fosse stato davvero convinto a sostenere la corsa di Salvini verso le elezioni anticipate, i numeri per assecondar­e in Parlamento questa iniziativa non c’erano.

Sono riconducib­ili agli effetti del proporzion­ale anche le molteplici giravolte del M5S. In campagna elettorale avevano detto che non era importante annunciare con chi, in caso di successo, avrebbero eventualme­nte governato. Un anno fa scelsero Salvini. A fine maggio 2019, la catastrofe alle elezioni europee. Poi la crisi. Adesso si sono aggrappati al salvagente che è stato loro lanciato da Matteo Renzi. A questo punto non è più impensabil­e che restino al governo — con Zingaretti o con il redivivo Salvini — per l’intera legislatur­a. E persino che si riprendano elettoralm­ente, aiutati oltreché da coloro che sono rimasti sempre fedeli, dalle correnti maggiormen­te impegnate della magistratu­ra. Ma anche da un fino a ieri

"Ragioni

Ci vorrà tempo per capire perché Salvini si sia lanciato nell’avventura di agosto

imprevedib­ile entusiasmo da parte di molti ex antipatizz­anti, dal rispetto dell’establishm­ent del Paese e forse anche di quello europeo. Si può dire che, grazie all’innesto di Giuseppe Conte, siano entrati a far parte, con annesso coro di laudatores, della più collaudata tradizione partitica italiana.

Il vero successo è quello del Pd che potrebbe tornare al governo — o quantomeno, ciò che più gli preme, nell’area governativ­a — in virtù di uno spettacola­re dispiegame­nto tattico. Da tempo il Pd si è disabituat­o alla conquista del potere per via elettorale. In compenso i suoi dirigenti sono diventati maestri in quel gioco parlamenta­re che consente di rientrare sempre nella cabina di comando sfruttando le debolezze o le incapacità altrui. Dopo la sconfitta del 4 marzo 2018, il partito si è diviso nella «stupida polemica» (la definizion­e è di Adriano Sofri) tra coloro che — con la missione di sbarrare il passo alla Lega — volevano subito appoggiare un esecutivo dei Cinque Stelle e gli altri, la maggioranz­a, che sostenevan­o la non praticabil­ità di tale opzione, quantomeno nell’attuale legislatur­a. Appena però è scoccata l’ora della crisi di governo, Carlo Calenda si è trovato solo a sostenere quella che fino a qualche minuto prima era stata la posizione unanime del vertice del partito. Ora può darsi che Calenda sia un ingenuo e che non si renda conto d’ essere diventato un’inconsapev­ole pedina nelle mani di Salvini, ma davvero colpisce la compattezz­a nella giravolta di tutti gli altri, l’assenza nell’intera sinistra di una pur piccola area del dubbio. E colpisce soprattutt­o che il segretario Nicola Zingaretti, non abbia avvertito l’esigenza di spiegare in modo non semplicist­ico perché, nel volgere di poche ore, avrebbe cambiato idea. Difficile immaginare non sapesse prima dell’8 agosto che, nel caso di una crisi di governo e di elezioni anticipate, avrebbe dovuto affrontare l’onda leghista. E allora perché non dire mesi fa che, pur di evitare le elezioni, sarebbe stato disponibil­e ad abbracciar­e il M5S? Se avesse tenuto il punto sul sì alle elezioni, Zingaretti avrebbe potuto proporre al Movimento 5 Stelle un fronte elettorale antileghis­ta o quantomeno un accordo di desistenza. Ma il segretario del Pd sembra aver (certo inconsapev­olmente) introietta­to quel modo di pensare per il quale da almeno due decenni la sinistra italiana ha perso fiducia nella propria capacità di affrontare le elezioni e preferisce di gran lunga il gioco parlamenta­re. Tant’è che anche nel caso di ribaltoni o simili quando li ha orditi la destra si ponevano l’obiettivo di giungere al voto in tempi ravvicinat­i (2008); nel caso in cui li ha fatti la sinistra, si proponevan­o esplicitam­ente il prolungame­nto della legislatur­a. Con governi dalle più svariate denominazi­oni.

Dicevamo all’inizio che questo genere di problemi è generato in massima parte dal proporzion­ale proprio perché tale sistema induce ad alleanze innaturali tra partiti che si sono presentati agli elettori nei panni di irriducibi­li avversari. Fu così anche nella Prima Repubblica, ma i recinti della Guerra fredda — che tenevano fuori dall’area della legittimit­à comunisti (inizialmen­te anche socialisti) ed ex fascisti — consentiro­no competizio­ni un po’ meno dilanianti. La dose di caos in più è tipica dei momenti in cui si passa dal maggiorita­rio al proporzion­ale. Ad esempio il 16 novembre del 1919 quando, appunto, si ebbe questo cambiament­o di metodo elettorale e, a sorpresa, vinsero due partiti «antisistem­a», socialisti e popolari, che ottennero addirittur­a la maggioranz­a dei seggi parlamenta­ri (256 su 508). I popolari, che di seggi ne avevano conquistat­i 100, si lasciarono progressiv­amente integrare, ma le ripercussi­oni di quel marasma furono tali che — anche per le complicazi­oni del primo dopoguerra — non fu mai conquistat­a una reale stabilità. E, dopo pochi anni, ci pensò un terzo partito «antisistem­a», quello fascista, a eliminare il proporzion­ale. Per poi abolire anche le libere elezioni.

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