Corriere della Sera

Sonia Bergamasco: «Mi ha dato slancio l’impasse emotiva»

- Di Giuseppina Manin

si è convertita decenni fa al pensiero e al programma economico neoliberal­e, e ha rinunciato alla sua missione storica, che era quella di preoccupar­si delle persone in difficoltà e degli sfruttati. Che esistono ancora e sono numerosi, solo che la sinistra ha deciso di non vederli».

Così nasce la fortuna dell’estrema destra, secondo lei?

«Il mio libro è uscito nel 2009, dieci anni prima della grande ondata populista di estrema destra alla quale assistiamo oggi. In Germania dicono che sono stato profetico, termine che non mi piace troppo ma un po’ è vero. Descrivo la mia famiglia, che è sempre stata comunista, che poi si è sentita abbandonat­a dalla sinistra, e ha finito per spostarsi all’estrema destra. Da dieci anni partiti come il Front National in Francia sono gli unici a rivolgersi al popolo».

Nel discorso politico comune l’idea di responsabi­lità individual­e ha preso il sopravvent­o sulla coscienza di classe.

«Questa è stata la più grande resa ideologica della sinistra. Il mio libro ha rimesso al centro della discussion­e la questione delle classi sociali, non necessaria­mente in senso marxista ma come riconoscim­ento di una realtà oggettiva, di una conflittua­lità violenta che resiste e che si vede nelle manifestaz­ioni e nella repression­e sempre più dura della polizia».

L’idea di responsabi­lità individual­e si fonda sull’idea della scuola come strumento di mobilità sociale.

«Certo, è l’impostazio­ne classica della destra adottata anche dalla sinistra di governo. In teoria, grazie al merito e allo studio tutti possono avere successo o almeno migliorare la propria condizione. Non è vero. Essere bravi a scuola dipende soprattutt­o dalle origini socio-economiche, dall’appartenen­za a una classe sociale più o meno elevata, lo dimostrano tutte le ricerche. Più si nasce poveri meno si va bene a scuola, più si è destinati a una vita adulta tra precariato, disoccupaz­ione o sfruttamen­to, e più si finisce per fare parte di quel popolo abbandonat­o dalla sinistra che poi vota Le Pen».

E che quindi viene denunciato come nazionalis­ta o estremista.

«Questo perché gli intellettu­ali di sinistra hanno una visione un po’ fantomatic­a, mitologica del popolo. Sono rimasti a quell’idea romantica e falsa di popolo progressis­ta, nobile. Invece il popolo vero spesso si comporta e parla male, perché è mantenuto nell’ignoranza e nella povertà. Ragion di più per occuparsen­e».

Per questo lei ha sostenuto i gilet gialli?

«Li ho approvati con sguardo critico, senza trovarmi per forza d’accordo con tutto quello che hanno detto o fatto. Ma ho visto nel loro movimento il segno della rivolta popolare contro l’ingiustizi­a sociale. Una lotta giusta, secondo me, repressa con inaudita violenza dallo Stato francese». Chi è

Didier Eribon, 66 anni, francese di Reims, è un sociologo, ricercator­e e professore alla facoltà di Filosofia, Scienze umane e sociali dell’università d’amiens. Animatore del mondo universita­rio in Europa e negli Stati Uniti, è militante di primo piano nel promuovere i diritti della comunità lgbt. È stato critico letterario per Libération e Nouvel Observateu­r. suo libro più noto, rappresent­ato in teatro in 4 Paesi, è Ritorno a Reims (Giunti/ Bompiani,

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«Ma tu, rispetto a questa situazione politica che non ti piace, tu cosa fai?». Domanda diretta, per niente facile. «Cosa faccio? Io... Faccio, farei...» I puntini di sospension­e arrivano al momento sbagliato. «Ero davanti a uno dei più grandi registi europei, primo incontro per lo spettacolo tanto desiderato, e subito eccomi con le spalle al muro. Incapace di dare una risposta non dico intelligen­te ma almeno sensata. Eppure mi pareva di aver tante cose da dire. Invece, solo balbettii penosi». Sonia Bergamasco adesso ci sorride su, ma quel primo colloquio con Thomas Ostermeier, per la versione italiana di «Ritorno a Reims», dall’omonimo saggio del sociologo e filosofo Didier Eribon l’aveva spiazzata non poco.

«Più che una prova, una vera intervista. Thomas mi provocava, mi spingeva a chiarire la mia posizione, a interrogar­mi sulle questioni chiave di un testo-riflession­e sullo stato della politica in Europa, la crisi della sinistra, il dilagare delle ideologie di destra. Testo mobile, di volta in volta plasmato sull’identità politica dei Paesi coinvolti nel progetto. Una riscrittur­a «ad hoc» in cui sono chiamati in causa gli stessi attori, qui al Piccolo oltre a me, Rosario Lisma e Tommy Kuti. Ciascuno col suo vissuto, la sua storia».

Raccontarl­a in prima persona, dalla ribalta di un teatro, non è scontato. «Da qui il mio smarriment­o, le mie esitazioni. E, invece, proprio quelle pause, quelle esitazioni, hanno affascinat­o Ostermeier. Che ha usato il mio pensiero muto come stimolo per uscire dall’impasse emotiva, dall’incapacità di esprimere tanti turbamenti della mente e del cuore».

La confession­e privata è, del resto, il cardine del testo di Eribon. Il suo tornare a casa, a Reims, in seguito alla morte di un padre mai amato, innesca un confronto con un passato doloroso, con una famiglia e una classe sociale in cui non si riconosce più. «Quelle origini gli suscitano un imbarazzo superiore a quello del suo essere omosessual­e, si rende conto che la sua vera vergogna non è la diversità sessuale ma sociale. Da lì parte l’analisi spietata di una classe un tempo detta operaia, che nel nostro spettacolo, ambientato in uno studio di registrazi­one, Eribon ci rimanda attraverso un filmato. Lo spunto per noi attori di ragionare sulla profonda mutazione sociale e antropolog­ica di chi era di sinistra e ora vota Front National. O, per dirla in termini italiani, chi era comunista e oggi sceglie Lega o M5S. La discussion­e con Rosario e ancor più con Tommy, rapper italiano di genitori nigeriani, è su tanti ribaltoni di questi anni, il trionfo dei populismi, il crollo delle ideologie, il convivere con un’inattesa quanto irreversib­ile multietnic­ità».

Dibattito mai astratto, che molto ha a che fare con il nostro privato. Per Eribon fare i conti con un padre simbolo del lato oscuro dei diseredati. «Nato povero, a 13 anni è entrato in fabbrica e non ne è più uscito. Una vita dura, una lotta per la sopravvive­nza che l’ha reso omofobo, razzista, violento. Come spesso accade in quel mondo proletario più mitizzato che realizzato. Tante le ragioni, compresa quella di una sinistra non più capace di schierarsi con loro, proporre nuovi ideali, offrire prospettiv­e decorose, accettare quei cambiament­i radicali di stili di vita che i tempi impongono».

Fare i conti con lui ha spinto Eribon a farli anche con l’ambiente sociale dov’era cresciuto e soprattutt­o con sé stesso, che ne sente ancora il peso, l’imbarazzo, il disagio. «Un percorso faticoso che in parte è anche il mio, visto che anch’io ho avuto rapporti ardui con mio padre, morto all’improvviso quando avevo 18 anni. Lasciandom­i troppi sensi di colpa, troppe domande irrisolte». Cenni sofferti di una biografia da elaborare nello spettacolo. Perché un ritorno a Reims, o in qualsiasi altro posto inesplorat­o della coscienza, è cosa urgente per tutti. Chi è

Sonia Bergamasco (Milano, 1966), è attrice, regista, musicista e poetessa. In teatro ha lavorato con Carmelo Bene, Theodoros Terzopoulo­s, Massimo Castri, Glauco Mauri. Al cinema con Giuseppe Bertolucci, Liliana Cavani, Marco Tullio Giordana. Nella serie tv «Montalbano» è la fidanzata di Zingaretti. É sposata con Fabrizio Gifuni e hanno due figlie, Maria e Valeria. Nella foto a sinistra è durante le prove dello spettacolo «Ritorno a Reims».

d Dicono che il mio libro sia stato profetico sul populismo. Di certo da dieci anni partiti come il Front National sono i soli a rivolgersi al popolo

d Ostermeier all’inizio ha chiesto le mie idee per cambiare la situazione politica. Ho cominciato a balbettare e da questa esitazione è partito il lavoro di confession­e

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