«L’ultima telefonata con Craxi a Natale»
Claudio Martelli: «La ricerca di un rapporto esclusivo con i cattolici ha sempre diviso socialisti e comunisti Nella guerra tra Stato e mafia non ci fu una trattativa, ma un cedimento unilaterale del primo alla seconda»
Claudio Martelli, c’è un paradosso nella storia politica italiana. Durante la Prima Repubblica, ammesso ne sia mai esistita una seconda, in vari momenti le diverse forze della sinistra avevano una forza superiore a quella della Dc. Ma non hanno mai governato insieme.
«Negli anni 80 effettivamente la sinistra era maggioritaria, sommando socialisti, socialdemocratici, comunisti, radicali. Era certamente maggioranza. Un portato dei referendum, quelli sui diritti civili, su divorzio e aborto. Bisognava concepirla a tappe, questa unità della sinistra: socialisti e laici, uniti, e i comunisti, rispettando i tempi della loro evoluzione, che era in corso. Modificando la prospettiva di fondo di Berlinguer tutta volta al dialogo con la Dc. Lui era veramente convinto che non si potesse governare un Paese come l’italia con il 51%. Io penso invece si potesse, perché era un Paese democratico. Ma perché, non ci sono stati lo stesso gli attentati? Hanno rapito Moro per evitare il compromesso storico, quindi non era certo una prospettiva più rassicurante dell’alternativa. Il compromesso storico serviva a legittimare definitivamente il Pci: il problema storico del Pci era quello. E contemporaneamente a mantenere i tratti della diversità comunista. La legittimazione, nella sua fotografia statica, è cosa diversa da una visione revisionistica della propria storia. La sinistra che ha vinto in Europa è la sinistra non marxista, i laburisti inglesi e la socialdemocrazia tedesca che non erano dottrinari, attingevano, come mi disse Brandt, più a Lassalle che a Engels. Quanto più l’impianto ideologico è rigido, coerente, implacabile, tanto più prende l’impronta settaria e il settarismo è la premessa della divisione. La divisione è la premessa dell’impotenza o della sconfitta. Ieri come oggi».
Anni 70: quando il Pci propone il compromesso storico il Psi è sulla linea dell’alternativa, con il congresso di Torino. Poi il Pci, scottato dalla vicenda della solidarietà nazionale, propone l’alternativa democratica e in quel momento il Psi si immerge nel buco nero del pentapartito. È una conversazione continuamente interrotta. Si è sempre cercato di essere divisi?
«Bisogna essere onesti: per ragioni diverse, forse opposte, né Berlinguer né Craxi volevano l’incontro. Non per ostilità tra di loro. Per una visione diversa delle cose, ma simile nella scelta dell’interlocutore principale. Per Berlinguer il grande incontro, quello storico, era con le masse cattoliche e, in un certo senso, anche per Craxi era così. Craxi era veramente convinto dell’alleanza con la Dc. Lui fino al ’56 affiggeva i manifesti della sinistra unita e c’erano, anche a Milano, sezioni in comune tra i due partiti. Ma l’ungheria cambiò tutto, anche in lui. Le sue esperienze cambiano, diventa l’interlocutore, nell’unuri, dell’ala democristiana. In realtà quello che ha sempre diviso i socialisti e i comunisti è la questione cattolica. Ma non nel senso che non fossero d’accordo. Tutti e due erano convinti fosse la questione decisiva, molto più che i rapporti tra i loro partiti di sinistra. Ma volevano un’esclusiva del rapporto e temevano l’avesse l’altro».
Frattocchie 1983, incontro tra Pci e Psi. Che ricordo hai?
«Mah. Una cosa abbastanza fredda, con momenti di aperture reciproche. Però pesava una coltre di diffidenza. Lì c’è stato un eccesso di chiusura da parte di Berlinguer. Se avesse assunto un atteggiamento diverso nei confronti della presidenza del consiglio di Craxi forse qualcosa sarebbe cambiato. Forse, qualcosa. Non era una svolta pazzesca, era un grado di avvicinamento, quello compatibile con il mantenimento delle proprie posizioni. Il compromesso storico era tramontato, l’unità nazionale pure, si era già votato, quindi si era entrati in una nuova fase. Il Pci, in quella fase, era attratto dall’idea del “governo degli onesti”. Sono sempre stati molti i giochi di specchi nella storia politica italiana: pezzi della borghesia illuminata che dialogano con il Pci, esponenti della borghesia più dinamica e più nuova che invece dialogano con il Psi. Settori del mondo cattolico e della Dc che guardano piuttosto ai socialisti ed altri che guardano invece ai comunisti. Alla fine però questo gioco era a somma zero e l’unica che se ne è avvantaggiata è stata la Democrazia cristiana. I due forni sono sempre esistiti. Anche prima di Andreotti. Lui ne è diventato il teorico, tenendo aperte molteplici ipotesi di collaborazione. Era stato l’uomo del governo a destra con Malagodi, poi della solidarietà nazionale con il Pci, poi del pentapartito con un rapporto preferenziale con il Psi. Una catena di forni, sempre aperti».
Vicenda Moro. Nell’intervista che mi ha rilasciato, Formica si chiede: noi vedevamo Pace e Piperno all’aperto, non di nascosto, informavamo Viminale e Quirinale, poi Pace e Piperno andavano da Morucci. Perché diavolo i servizi non li hanno seguiti?
«E perché via Gradoli? Il Lago della Duchessa?»
Che idea ti sei fatto di quei giorni?
«La domanda di Rino è pertinente. Come mai nessuno si è mai sognato di seguirli? Sarebbero arrivati alla prigione di Moro. C’era l’unità di Crisi presieduta da Cossiga con addirittura dei collaboratori internazionali, gli americani Pieczenik e Ledeen. Ledeen: quello che, per Sigonella, fece litigare Reagan e Craxi, con una traduzione che esasperò i toni della polemica. Anche quel passaggio non è mai stato chiaro: nella vicenda di Sigonella quali interessi serviva Ledeen dentro l’amministrazione? La Cia? Moro: troppi episodi che dimostrano che non lo si è voluto salvare. Fili di collegamento con i servizi cecoslovacchi, c’è la presenza americana preoccupata, la dichiarazione di Kissinger. E poi le figure di Cossiga e Andreotti. Il primo fa un gioco spericolato e spregiudicato, lo fa essendo amicissimo e legatissimo a Moro. Come fai a non impazzire? Ricevi quella lettera e contemporaneamente hai, nella tua Unità di Crisi, gente che dice che non lo vuole trovare o che spera di trovarlo già morto. Altro che non dormirci la notte... Si capisce che poi sia stato male per il resto della sua vita, si è portato sulla coscienza un peso. Anche Andreotti chiuse qualunque varco e pare addirittura che la dichiarazione del Papa sia stata corretta da lui. C’è da restare sgomenti. Mai visto un’interpretazione così estrema e così crudele della ragion di Stato. Mai».
Al vostro congresso di Verona Berlinguer viene fischiato. Colpì l’avallo finale di Craxi: «Se avessi saputo fischiare, avrei fischiato anch’io». Non si seminava un odio che creava un baratro? Che impressione fecero a uno come te, che nell’unità della sinistra credeva?
«Beh, devo essere sincero, ero molto combattuto tra la mia educazione e la temperie della lotta politica. Mi dispiace fischiare, inviti uno e poi lo fischi... Però lui aveva appena detto che noi eravamo un pericolo per la democrazia, il governo Craxi era un pericolo. Nei festival dell’unità c’erano gli stand con la trippa alla Bettino. Craxi era un combattente per natura, temperamento e convinzione. Lui è diventato un anticomunista nel ‘56, dopo gli anni di esperienza unitaria di cui abbiamo parlato. Esistevano gli anticomunisti democratici, anticomunisti non reazionari, categoria di cui il Pci togliattiano, soprattutto, tendeva a negare l’esistenza. Se sono anticomunisti sono fascisti. Kennedy, Moro, Brandt erano anticomunisti, ma certamente democratici. I fischi sono la replica di uno che è in conflitto aperto con i comunisti. Nenni non era mai arrivato a questo, forse neanche Saragat. La categoria del “tradimento” è stata molto presente, spesso tragicamente, nella storia della sinistra. Craxi si ribellava a questi toni e, facendolo, allargava però il solco. Dicendo “fischierei anch’io”, difende il suo popolo, che lui stesso aveva fomentato, si identifica con esso, non lo delegittima. Quindi, pur essendo lontano dal mio spirito, capivo. Lo capivo e l’ho anche condiviso. Quando l’ha detto, ho applaudito anch’io. Ma tra fischi e insulti la sinistra allontanava la sua unità possibile».
Parliamo della parabola di Craxi.
«Guarda la storia del Psi prima di Craxi: la crisi dell’unificazione socialista nel ’66, la nuova scissione, le peripezie, Mancini, quell’andamento così plumbeo della segreteria di De Martino: insomma la doppia subalternità. Al governo con la Dc, all’opposizione con i comunisti. Liberarsi da questo retaggio è stata un’impresa titanica, come riprendere un partito esangue, com’era quello del ’76, e tirarlo fuori dalla sua crisi. Il Psi era malato di divisioni, di velleitarismo che volta per volta diventava massimalismo o ministerialismo. Craxi aveva chiarissime tutte le debolezze strutturali del suo partito, voleva superarle e ha lottato per superarle».
Quando inizia la parabola discendente?
«Nel 1987. Con la fine dell’esperienza di governo lui diventa lentamente un’altra persona. Non credo mi faccia velo il fatto che allora sono cominciati tra di noi dei contrasti. Noi avevamo raccolto le firme con i Radicali per il referendum sulla giustizia giusta e io avevo difeso il diritto di quelli che avevano raccolto le firme sul nucleare a celebrare il loro referendum. De Mita, con la staffetta, ritira la fiducia al governo Craxi. Si aprono le consultazioni. Craxi dice: “O mi ridanno l’incarico o andiamo al voto”. “Ma tu sei sicuro che ti lascino andare al voto guidando il governo?” “Sono sicuro”. “Io non ci credo”. Puntualmente Cossiga dà l’incarico a Andreotti. Alle consultazioni vado io. Con Andreotti concordiamo una soluzione per l’uscita dal nucleare, dopo il referendum, attraverso un nuovo piano energetico nazionale e lui si spinge fino ad aprire sull’elezione diretta del presidente della Repubblica. Disse: “La Dc non può accettare questa impostazione però ne potremmo accettare una più gradualista. Se, dopo la terza elezione nulla in Parlamento, non si configura nessuna maggioranza in grado di eleggere il presidente della Repubblica, a quel punto si può ricorrere al voto popolare”».
Per la Dc una bella svolta...
«Entusiasta corro da Craxi. È furioso: “Tu la devi smettere di occuparti della crisi, la seguo io”. “Guarda che ci propongono di celebrare i referendum. Noi li vinciamo, andiamo a votare dopo. Che ti frega di tenerti Andreotti per un anno?”. Ma disse no al tentativo di Andreotti, e ci beccammo Fanfani. Nell’87 si spezza la fase ascendente. Lo riconobbe: “Ho fatto un unico errore” mi disse, “tornare a via del Corso dopo la presidenza. Avrei dovuto occuparmi di Onu e di Internazionale socialista. Tornando al partito sono passato dal ruolo che avevo conquistato