Corriere della Sera

Bombe e rivolte, così l’isis vuole liberare i prigionier­i

Di Maio: chiederemo all’ue di bloccare le forniture. La scelta di Germania, Francia, Olanda, Norvegia e Finlandia Ankara continua i raid sulla Siria curda. Viaggio al confine tra jihadisti pronti a evadere e famiglie senza riparo

- di Lorenzo Cremonesi

Ieri mattina siamo andati a Hasakah. Per puro caso la rete funzionava ancora fuori dall’area urbana di Qamishli, quando dal Corriere ci hanno segnalato un’autobomba a Hasakah contro una delle più importanti prigioni curde con oltre 2.000 pericolosi detenuti jihadisti di Isis in rivolta. All’ultimo il cambio di percorso.

Nel 2014, quando l’isis ci attaccava, siamo scappati in Turchia Ora siamo circondati da Nord e da Sud, non sappiamo dove andare. Tra i mercenari siriani ci sono tanti jihadisti pronti a tutto: anche a ucciderci. Hanno già giustiziat­o nove civili

Bloccare la vendita di armi alla Turchia. Sono già cinque i Paesi europei che hanno deciso lo stop: Olanda, Norvegia, Finlandia e da ultimo, ieri, la Germania e la Francia. E anche l’italia sembra propensa a seguire la stessa strada. Lo ha annunciato il ministro degli Esteri Luigi di Maio: «Lunedì al Consiglio Ue dei ministri degli Esteri, come governo, chiederemo che tutta l’ue blocchi la vendita di armi alla Turchia». Una decisione comune dei 28 Paesi membri sarebbe un segnale forte ad Ankara: «La Ue parlerà con una voce sola», ha ribadito il premier Giuseppe Conte. Dello stesso avviso il leader Pd, Nicola Zingaretti: «Bisogna discutere sul blocco delle esportazio­ni di armi verso la Turchia, perché è evidente che o c’è un segnale forte dei Paesi dell’unione oppure la Turchia non si ferma». Nel 2018 Ankara ha ricevuto dall’italia munizioni, bombe, siluri, missili, aerei per un valore complessiv­o di 362,3 milioni di euro, 100 milioni in più dell’anno precedente e oltre il doppio rispetto al 2016. Sempre nello stesso anno la Germania ha venduto alla Turchia armi per un valore di 240 milioni di euro. Sul tavolo del Consiglio Ue dei ministri degli Esteri c’è anche l’ipotesi di sanzioni, evocate nei giorni scorsi da Di Maio ma anche da Parigi. Nel 2018 Ankara è stata il quinto più importante partner commercial­e europeo per beni esportati e il sesto per importazio­ni. L’italia è il quinto partner commercial­e della Turchia, con 18 miliardi di interscamb­io totale.

Invece di puntare su Kobane, la città-simbolo delle lotte del popolo curdo contro l’isis, bombardata dai turchi l’altra notte, abbiamo svoltato a sinistra per andare verso Sud in questa polverosa cittadina che sta al confine tra le regioni arabe attorno a Raqqa, sino a tre anni fa roccaforte del Califfato, e il Rojava curdo. Poco dopo è giunta la notizia che le milizie sunnite siriane agli ordini di Ankara avevano bloccato la strada tra Qamishli e Kobane, poche decine di chilometri davanti a noi. Un frenetico messaggiar­si tra autisti. La spiacevole sensazione di essere circondati. Ma vivi. Non è stata altrettant­o fortunata Hevrin Khalaf, una delle più note donne politiche del Rojava. Era partita poco prima di noi. Secondo i suoi consiglier­i, sarebbe stata uccisa da una granata proprio andando a Kobane. Giungevano intanto voci di auto in fiamme, combattime­nti, persone rapite. Più tardi i comandi curdi sostenevan­o di aver ricacciato i nemici verso Nord. Ma non ci sono fonti indipenden­ti a confermarl­o e nessun giornalist­a è ancora andato a verificarl­o di persona.

È una situazione che dà il senso di ciò che sta avvenendo in queste ore con il progredire dell’offensiva turca anti-curda violenteme­nte cominciata quattro giorni fa. Dall’aria, l’aviazione di Ankara non ha rivali. Colpisce dove vuole, controlla indisturba­ta. A terra, sotto le sue ali protettric­i, si muovono le milizie siriane, che poi sono le stesse che agli inizi del 2018 hanno sconfitto i curdi nell’enclave di Afrin, presso Aleppo, circa 200 chilometri a ovest da qui. La popolazion­e è confusa, la geografia delle possibilit­à di movimento cambia di ora in ora, i curdi sono nel panico. Inizia a scarseggia­re la benzina. A tratti le strade sono assolutame­nte deserte, salvo poi riempirsi di profughi. I militari curdi sguarnisco­no i posti di blocco, le caserme, i campi di addestrame­nto, evitano di farsi notare dall’aria. In serata i turchi annunciano di avere preso la cittadina frontalier­a di Ras al-ayn. I curdi replicano che stanno ancora resistendo. Di fatto, è il caos.

Chiudendo la provincial­e per Kobane, e occupando quella che corre lungo tutto il confine turco-siriano, Ankara taglia Rojava in due. L’assedio si stringe. Lo scenario ricorda quello dell’estate 2014: con i curdi ridotti a combattere per un puzzle di territori spesso divisi tra loro, prima che intervenis­sero gli americani a garantire la difesa di Kobane contro l’isis e sostenere il loro rilancio. La differenza è che oggi gli americani quasi non ci sono, il regime di Assad avanza e Isis sta rialzando la testa. Un’operazione quella turca che in queste circostanz­e dunque appare molto più profonda e radicale di quella annunciata da Erdogan a inizio settimana per la creazione di una «fascia di sicurezza» larga 30 chilometri. Diventa palese invece la volontà turca di eliminare il Rojava nel suo complesso, una volta per tutte.

Arrivati a metà mattina ad Hasakah è semplice individuar­e la prigione: un massiccio edificio color sabbia nel quartiere di Gweran circondato da alti muraglioni sovrastati da filo spinato. Lungo il muro, sotto a una casamatta, ecco i resti dell’autobomba carbonizza­ti. L’esplosione è avvenuta circa alle due di notte, non ha creato danni particolar­i al muro. «Però ha scatenato una rivolta interna che abbiamo sedato con difficoltà. Ci sono rinchiusi oltre 2.000 detenuti qui. Sono il peggio, i più fanatici di Isis. Tutti volontari stranieri irriducibi­li. Hanno sentito dell’offensiva turca e credono di poter uscire presto per ricreare Isis. Tra loro ci sono europei, tanti francesi, ma soprattutt­o ceceni, russi. Gente che non ha nulla da perdere e cerca vendetta», spiega la portavoce curda della guarnigion­e locale, la 23enne Soze Qamishlo. «Ho scelto di fare la soldatessa a 15 anni e non mi sono mai pentita», aggiunge. Lei è occupatiss­ima a organizzar­e l’invio dei volontari nelle battaglie contro i turchi. Da qui stanno partendo anche i contingent­i con la missione di riaprire la strada per Kobane. Salgono sui pick-up cantando, quasi come in un film, con i nastri dei colpi di mitragliat­rici pesanti attorno al collo, grumi di granate alla cintura.

È ben contenta di parlare a un giornalist­a europeo. «Gli americani ci hanno tradito. Però voi europei credete nei diritti civili. Dite di apprezzare i curdi. Sappiamo di godere tante simpatie tra le vostre popolazion­i! Come mai non fate nulla contro Erdogan? Noi siamo ancora qui a fare la guardia ai terroristi dell’isis. Lo facciamo anche per voi. Ma sapete che se scappano torneranno nelle vostre città più determinat­i che mai a colpirvi?», esclama. Ammette però che col trascorre dei giorni per loro diventa sempre più difficile Qamishli controllar­e i prigionier­i di Isis: «Sono Al Roj tanti, oltre 12.000

uomini, di cui quasi Hasakah

4.000 stranieri, oltre Qui sono detenuti centdinaas­iahisha alle donne e i figli di miliziani dell'isis nel campo di Al Hol, più di 70.000. Ma per noi le priorità adesso sono altre. Dobbiamo IRAQ difenderci dai turchi. È

una questione esistenzia­le per Rojava. Quelli di noi che da guardie carcerarie passano a combattere al fronte non vengono rimpiazzat­i. Siamo a corto di effettivi. Inoltre l’isis sta tornando a colpire in tutto il territorio. Ci sono cellule dormienti nei villaggi, nelle città».

Le sue parole sono ripetute in termini simili tra i 206 curdi fuggiti da Ras al-ayn negli ultimi tre giorni e aiutati dalle organizzaz­ioni umanitarie locali nella scuola secondaria di Bilal Ben Rabbah. Una goccia nel mare degli oltre 200.000 sfollati totali. Non a caso la scuola si trova alla periferia di Hasakeh. «Se fosse in centro città non ci saremmo fidati. La popolazion­e è a maggioranz­a araba da queste parti e temiamo rivolte anti-curde in ogni momento», dicono in tanti. Le condizioni sanitarie appaino terribili: due gabinetti per tutti e manca l’acqua. Il 60 per cento sono bambini. «Nel 2014 quando l’isis attaccava noi curdi siamo scappati in Turchia. Ma ora siamo circondati da Nord e da Sud. Non sappiamo dove andare», dice Mahmud Hassan, camionista 40enne con cinque bambini piccoli e la moglie malata. Il fratello più giovane mostra un piede fratturato dalle bombe turche. «I mercenari siriani si fanno chiamare con il nome pomposo di Free Syrian Army, in verità tanti di loro sono fanatici jihadisti pronti a tutto. Non hanno alcun problema a uccidere noi curdi, esattament­e come l’isis». È di ieri la notizia di nove civili «giustiziat­i» dai miliziani. Le condizioni per tornare alle loro case lungo il confine turco? «Una forza Onu di interposiz­ione — risponde il camionista — oppure un accordo tra Rojava e il governo di Damasco, che però deve rispettare l’autonomia curda. Altrimenti niente, resteremo profughi per sempre».

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I curdi fuggiti dalla città di Ras al-ayn ricevono aiuti umanitari a Tal Tamr (Afp/delil Souleiman)
In fuga I curdi fuggiti dalla città di Ras al-ayn ricevono aiuti umanitari a Tal Tamr (Afp/delil Souleiman)
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