Corriere della Sera

Io e Bettino avevamo idee diverse sui democristi­ani È stato trattato senza pietà, la sua storia va ripensata

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per me e per i socialisti — guidare il governo più duraturo della storia repubblica­na e occuparmi delle grandi questioni — a dover brigare per fare ministri, sottosegre­tari”».

Quando finisce il Psi?

«Il Psi finisce con Mani pulite. Inutile girarci attorno. Alla vigilia delle elezioni del ‘92 il rapporto tra Bettino e me era sempre molto affettuoso, però si era creata qualche distanza. Io pensavo fosse finito il ciclo della coalizione con la Dc e bisognasse rischiare e sperimenta­re vie nuove. Un sabato sera vado a casa sua. Gli dico che trovo sbagliato impegnarsi con la Dc prima del voto, lo spingo a tenere una mano sulla testa al passaggio da Pci a Pds perché, se noi ci mettiamo a fare i guardiani di una roba finita, il pentaparti­to, il risultato sarà che loro cercherann­o un’intesa con la Dc. È inevitabil­e. Mi ascolta, ma scrolla la testa: “Claudio io li ho combattuti tutta la vita, me ne hanno fatte di tutti i colori. Adesso quella storia è finita, quella del Comunismo internazio­nale, e io non voglio che nemmeno un calcinacci­o di quei muri mi cada in testa. Si arrangino”. Era questa la sua posizione. L’unità socialista rivestiva, ma in modo difensivo, questa attitudine».

Il congresso di Torino del 1978 e la Convenzion­e programmat­ica di Rimini del 1982, famosa per le idee sul «merito e il bisogno», sono punti avanzati del pensiero riformista italiano. Ma poi molto cambia, nella costituzio­ne materiale del Psi. Come se il partito fosse stato «occupato» da persone che, con quei valori, non avevano molta relazione.

«Sì, e Bettino se ne accorse. Ricordo un incontro nell’ascensore alla Direzione del partito. Entra un compagno noto, non dico chi. Lui lo guarda e dice: “Ma a te non ti hanno ancora arrestato? Con quello che stai combinando...”. L’affaire politica è sempre esistito, anche nel glorioso primo dopoguerra, anche nel secondo dopoguerra. Mussolini pigliava quantità sterminate di denaro da tutti i suoi foraggiato­ri e nel dopoguerra i partiti appena nati avevano bisogno di vivere. La Dc prendeva i soldi dalla Cia, il Pci dall’unione Sovietica, il Psi per un po’ li ha presi anche lui dall’unione Sovietica poi invece sono passati al Psiup, come è poi successo al Pci con Cossutta. Dopo di che il partito si è arrangiato. Naturalmen­te l’arrangiars­i era molto più rischioso che non i canali super riservati dei finanziame­nti internazio­nali. Ogni tentativo di mettere ordine, che pure facemmo con Formica e Nesi, fu travolto dalle lotte correntizi­e interne. Le correnti si devono finanziare e la forma è ancora più rischiosa. Questo andazzo è durato dieci anni. Ma, diciamoci la verità, Tangentopo­li e Mani pulite non sarebbero successe senza il crollo dei muri a Berlino Est. Fu un cambio d’epoca».

Se tu nell’87 fossi diventato Segretario cosa sarebbe cambiato nella sinistra italiana?

«Quello era il momento giusto. Avremmo costituito un polo laico e socialista oltre il 20%, e a quel punto il rapporto con il Pci si poteva impostare, ben prima del crollo dei muri, in modo più serio. Quale era la richiesta che Occhetto, il gruppo dirigente del Pci di quegli anni, Insieme Un giovane Martelli con Bettino Craxi. Martelli ha scritto per Bompiani la sua autobiogra­fia, «Ricordati di vivere» (2013) poneva come una prova di serietà delle nostre intenzioni e di lealtà futura? Che noi sperimenta­ssimo di stare all’opposizion­e insieme. Ma Bettino diceva: “Sì, così noi andiamo all’opposizion­e e si ritorna al ’76: il Pci si mette d’accordo direttamen­te con la Dc”. No, in quel momento bisognava cercare strade nuove. Dopo il ’92, dopo la fine del Psi, quando la sinistra tutta era poco oltre il trenta per cento, avrei lavorato per il Partito democratic­o, prospettiv­a della quale, con Occhetto, avevamo parlato».

C’è un momento, nel ‘92, in cui tu hai capito che stava arrivando lo tsunami?

«Non Mario Chiesa. Gli avvisi di garanzia ai due sindaci, Tognoli e Pillitteri. Lì cominciò tutto. La gente che scappava. La catastrofe la avverto nell’estate del ’92. In quei mesi ero concentrat­o sulla questione della mafia. E forse non ho percepito per tempo che stava arrivando la grande slavina. Ero ministro della Giustizia e il mio fronte principale era Palermo: avevano ammazzato Falcone e Borsellino, tolto di mezzo Scotti, lo Stato era in ginocchio. Caponnetto diceva “tutto è perduto”. Lo chiamai al ministero per tornare ad impegnarlo. C’era un clima da fine vera. Io ho avuto paura di un cedimento dello Stato. L’ho avuta, l’ho vista ai funerali di Falcone. Quella era la guerra vera. La mafia contro lo stato. E poi il cedimento ci fu. Non c’è stata la trattativa, c’è stato un cedimento, unilateral­e. Quando Conso dice: “Io e solo io decisi di togliere dal 41 bis centinaia di mafiosi e lo feci per dare un segnale di disponibil­ità all’ala moderata di Cosa nostra guidata da Provenzano”, tratta la mafia come fosse un partito. Non è una trattativa, è un cedimento unilateral­e».

Un collaborat­ore di Messina Denaro ha riferito di un attentato in preparazio­ne contro di te. Tu chiamasti Falcone al ministero e questo bastò per scatenare, contro di lui, una polemica durissima.

«La mattina ho giurato da ministro, il pomeriggio ho chiamato Falcone. Gli ho detto di venire a Roma, volevo offrirgli la direzione degli Affari penali. Falcone non era un politico, era il miglior magistrato al mondo, così era considerat­o. Salvo che a Palermo. Come disse Borsellino anche la magistratu­ra aveva responsabi­lità gravi. Falcone ha cominciato a morire quando gli preferiron­o Meli al Consiglio superiore, quando lo fregarono per l’elezione al Csm, quando lo rifregaron­o per la nomina a procurator­e a Palermo. Il tutto condito, come tu ricordavi, con azione denigrator­ia pazzesca, che non veniva da anfratti di sovversivi, erano membri del Consiglio superiore della magistratu­ra, ambienti di stampa e politici».

Ti ricordi l’ultima conversazi­one che hai avuto con Craxi?

«Sì, nel dicembre del ’99. Alla vigilia di Natale. Non lo sentivo da un pezzo. All’inizio, dopo che era rifugiato a Hammamet, mi aveva lasciato un numero riservato. Lo chiamavo dalle cabine telefonich­e. Noi vivevamo come braccati, chi non l’ha vissuto fa fatica a capire il clima in cui abbiamo vissuto il ’92, ’93, ’94. Abbiamo parlato i primi due anni, poi non so cosa è successo, in esilio. Per due o tre anni sono caduti i contatti. Alla fine Stefania me l’ha passato al telefono. Mi dice: “Ti devo fare una sorpresa” ed ero felice. Anche lui era molto contento, mi chiese di mio figlio. Mi sono commosso, lui aveva una voce stanchissi­ma. Gli ho detto: “Vengo a trovarti”. “Aspetta un momento, adesso mi sono appena ripreso dall’operazione”. Invece non si riprenderà più. La sua morte è ancora oggi inaccettab­ile. Non esisteva per il governo la possibilit­à di prendere un aereo e farlo operare a Madrid, a Parigi, a Tel Aviv? Non si fa operare un ex presidente del Consiglio in un ospedale non attrezzato, con uno dei medici che deve chiedere all’infermiere di reggere la lampada per illuminare il tavolo operatorio. Napolitano ha ragione: Craxi è stato trattato con una durezza senza eguali. Qualunque cosa abbia fatto è stato trattato con una durezza e spietatezz­a inaudita, in Italia. Perché? È una storia tragica però bisogna avere il coraggio di ripensarla. Ripensare Craxi non è così un vezzo per i craxiani, o gli orfani, è una necessità, quantomeno un’utilità per ricomporre una storia. Si sono perdonate cose ben più gravi, nella storia della sinistra italiana, che non il finanziame­nto illecito al partito».

È finito il socialismo?

«No, io non penso che sia finito, il socialismo. Dedicherò quel che mi resta da vivere a dimostrarl­o. È stato un errore credere alla storia della fine delle ideologie, bubbola inventata dal pensiero unico. In realtà, spazzando via insieme con il comunismo anche il socialismo, la socialdemo­crazia, i fermenti più radicali delle varie forme di sinistra e persino il liberalism­o nella sua forma autentica e le culture democratic­he, è rimasta in piedi un’unica ideologia che è il nazionalis­mo sovranista. Prima gli italiani, dicono. Quando uno dice prima gli italiani, prima gli americani, la cosa importante che ti sta dicendo è che tu vieni dopo. Tu non sei importante, non sei come loro. Non esisti, sei un problema. Non una risorsa, come invece è chiunque di noi».

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Se nell’87 fossi diventato segretario avremmo impostato un rapporto serio con il Pci ben prima del crollo dei muri

Troppi episodi dimostrano che Moro non lo si è voluto salvare Il Psi finì con Mani pulite, e noi vivevamo come braccati

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