Iraniane allo stadio nel nome di Sahar, la ragazza suicida per amore del calcio
Dopo quasi 40 anni di divieti per le donne
In pochi minuti dall’istante in cui sono stati messi in vendita online, i 4 mila biglietti riservati alle donne erano tutti esauriti. Giovedì 10 ottobre le fortunate che li avevano acquistati li hanno esibiti come un prezioso lasciapassare e, per la prima volta in quasi 40 anni, le porte dello stadio Azadi di Teheran si sono aperte alle donne. Sui social le spettatrici hanno condiviso prima la gioia mista all’incredulità, poi l’ebrezza provata in quei 90 minuti di qualificazione ai Mondiali della loro Nazionale, avvolte nei colori della bandiera iraniana e nel frastuono delle vuvuzela. Vittoria! Iran-cambogia, 14-0. Ma l’esito in campo era scontato (la squadra di Teheran è nettamente più forte), mentre è l’altra partita — quella per chi può sedersi nelle tribune — a tenere il pubblico internazionale con il fiato sospeso.
L’accesso agli stadi è stato vietato alle iraniane nel 1981: una regola non scritta, in nome della separazione tra i sessi ma percepita come bizzarra dai giovani abituati a incontrarsi in ristoranti, parchi, cinema. «È strano: perché possiamo sederci gli uni accanto alle altre negli spazi pubblici, ma non negli stadi?», osserva Maryam Shojaei, sorella del capitano della Nazionale, che un anno fa ha sventolato uno striscione con la scritta «Noban4women» (e ora vive in Turchia). Fino a giovedì l’agenzia semi-ufficiale Fars metteva in guardia sul linguaggio volgare dei tifosi, l’uso di droghe e la violenza cui verrebbero esposte le donne allo stadio. Per non parlare della vista delle gambe nude dei calciatori. Ma il movimento per l’accesso alle partite è cresciuto con il passare del tempo: nel 2005 le tifose si riunivano ogni settimana davanti allo stadio Azadi con cartelli che chiedevano di far «entrare l’altra metà della società». Alcune si vestivano da uomini, con barbe finte e capelli corti, per intrufolarsi. Nel 2006 il regista Jafar Panahi dedicò loro il suo film Offside, Orso d’argento a Berlino. Nello stesso anno, persino il presidente ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad prese le loro parti, dichiarando che le donne allo stadio avrebbe contribuito alle «buone maniere degli spettatori e a un clima positivo». Ma la Guida Suprema Ali Khamenei, che in Iran ha l’ultima parola su tutto, si oppose.
Nel 2013 il movimento Open Stadium scriveva alla Fifa, alle squadre di calcio e alle organizzazioni per i diritti umani, chiedendo di fare pressione su Teheran. Quando due anni fa l’arabia Saudita, grande nemica dell’iran, ha annunciato a sorpresa l’apertura dei suoi stadi alle donne, le iraniane hanno sperato che la feroce rivalità tra i due Paesi per una volta potesse aiutare le femministe. Ma dal gennaio 2018 a oggi, Amnesty International ha contato 40 iraniane arrestate (alcune incriminate) per aver tentato di entrare allo stadio. Poi, l’anno scorso un numero limitato di iraniane è stato ammesso (su invito) alla finale della Champion’s League dell’asia, ma la svolta è arrivata solo un mese fa. Il prezzo è stato altissimo.
C’è voluto il suicidio di una ragazza di 29 anni, Sahar Khodayari, a scuotere la Fifa, spingendola a minacciare la squalifica dell’iran se non avesse aperto lo stadio alle donne. Sahar era stata condannata a sei mesi di carcere per essersi intrufolata a una partita vestita da uomo. Si è data fuoco: è morta il 9 settembre. Pochi giorni dopo, da Milano, il presidente della Fifa Gianni Infantino ha promesso che Teheran avrebbe ammesso le spettatrici il 10 ottobre. La «ragazza blu» — com’è stata soprannominata Sahar per il colore di maglia della sua squadra del cuore, l’esteghlal — non è stata dimenticata. Giovedì per lei c’erano cori e qualche cartello, nonostante l’occhio vigile di 150 guardiane in chador (una di loro ha inseguito una giovane che inneggiava alla martire).
Non è solo una questione di sport. I vertici della Repubblica Islamica temono che, se cedono sugli stadi, le donne chiederanno altri diritti, e poi altri ancora. Nonostante quasi tutti gli 80 mila posti dello stadio Azadi fossero vuoti, le autorità non hanno voluto concederne più di 4 mila alle donne; a quelle rimaste fuori è stato detto di tornare a casa. Le sbarre separavano le tribune femminili e maschili. Soprattutto, non ci sono garanzie che le iraniane potranno assistere alle partite in futuro, specialmente a quelle nazionali. Per Amnesty, è stata una «cinica mossa pubblicitaria» del regime per «rifarsi l’immagine».
«Mia madre da ragazza andava sempre alle partite, ma non ha mai potuto vedere suo figlio giocare», scrive Maryam Shojaei sul New York Times. Dopo la vittoria di giovedì suo fratello Masoud, il capitano della Nazionale, e i compagni in campo hanno applaudito le spettatrici in tribuna. «Solo quando tutte le donne verranno ammesse allo stadio, allora Azadi meriterà il suo nome, che vuol dire libertà», osserva Maryam. Quel giorno — è la proposta dell’ex capitano — lo stadio dovrebbe cambiare nome: «Si chiamerà Sahar».