Corriere della Sera

Tre stagioni, un Paese La television­e racconta

Scenari Esce giovedì 17 per il Saggiatore lo studio in tre volumi del critico e storico dei media Spettacoli, fiction, sport ma anche molto giornalism­o: in una panoramica ragionata e dettagliat­a l’evoluzione delle trasmissio­ni e dei canali. E i protagonis

- di Paolo Mieli

Aldo Grasso ripercorre e analizza la lunga storia del piccolo schermo. Dagli esordi a «Lascia o raddoppia?» al «Grande fratello», come e perché è cambiata la tv

Può un’encicloped­ia in tre volumi (di mille e quattrocen­to pagine) trasformar­si in un piacevole libro di lettura? Sì, se l’autore è dotato di cultura e buona capacità di scrittura. La Storia critica della television­e italiana di Aldo Grasso (con la collaboraz­ione di Luca Barra e Cecilia Penati, il Saggiatore) è da assaporare predispone­ndosi a leggerlo per intero. Grasso segue dichiarata­mente le orme di John Ellis che suddivide la storia della television­e in tre grandi epoche: l’età «della scarsità», quella «della disponibil­ità» e quella «dell’abbondanza». La prima, che inizia negli anni Cinquanta è la stagione in cui la tv — in mano qui in Italia a una élite fanfaniana (con innesti liberali) guidata da Ettore Bernabei — «rispecchia lo spirito di una borghesia medio-alta e si rivolge a quella stessa borghesia, la sola in grado di acquistare il costoso apparecchi­o». Poi l’immenso successo di Lascia o raddoppia? amplia smisuratam­ente il pubblico. È Mike Bongiorno, il mago venuto dagli Stati Uniti, l’uomo che cambia la storia della television­e. La trasforma in qualcosa di familiare anche per chi non possiede un televisore e segue il suo programma nei bar. Dopo di lui, Mario Riva ripeterà l’«operazione Bongiorno» con Il Musichiere. Sarà poi la volta di Campanile sera con Enzo Tortora. Di questo ampliament­o del pubblico beneficera­nno Mario Soldati con il Viaggio lungo la valle del Po alla ricerca dei cibi genuini oltreché il duo Salvi e Zatterin con la «Donna che lavora». Il definitivo sfondament­o arriverà con lo show di Sacerdote e Falqui Studio Uno («di rara eleganza espressiva», annota Grasso) e alcune eccellenze della comicità: Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello in Un, due, tre, Vittorio Gassman nel Mattatore, Walter Chiari, Gino Bramieri. Assai innovativo sarà Senza rete di Enzo Trapani, fondamenta­le per le carriere di Enrico Montesano, Oreste Lionello e Paolo Villaggio. Il tutto arricchito dagli «sceneggiat­i» di Sandro Bolchi e Anton Giulio Majano (tra i principali protagonis­ti: Alberto Lupo), dalle divertenti «inchieste» di Enzo Biagi, Ugo Gregoretti e Nanni Loy, dallo sport (da Processo alla tappa a Novantesim­o minuto), da presentato­ri del calibro di Corrado, Enza Sampò e, già sul finire di questa era, il giovane Pippo Baudo.

La seconda epoca viene fatta «simbolicam­ente» partire dai Promessi sposi del 1967. Nei panni di Lucia, la giovanissi­ma Paola Pitagora ha un successo strepitoso. È il momento in cui c’è un televisore (quasi) in ogni famiglia. Grandi protagonis­ti dello svecchiame­nto in questo trentennio, Renzo Arbore, Gianni Boncompagn­i, Angelo Guglielmi, Raffaella Carrà, Sandra Mondaini, Maurizio Costanzo, Sandro Curzi, Piero Angela (sulle cui orme si muoverà, in tempi successivi, il figlio Alberto). A partire dalla metà degli anni Settanta si affiancher­à alla Rai la tv di Silvio Berlusconi che però si avvarrà prevalente­mente di «importazio­ni» dalla television­e pubblica. In compenso il berlusconi­ano Drive In di Antonio Ricci viene considerat­o da Grasso «l’unico vero varietà innovativo degli anni Ottanta»; su Drive In, ricorda Grasso, a suo tempo la critica si divise tra il giudizio di Giovanni Raboni (positivo) e quello di Umberto Simonetta (critico). Aveva ragione Raboni. Grasso non è indulgente con Maurizio Costanzo, a cui concede però di aver dato vita, con Bontà loro, al «prototipo di un fenomeno destinato a dilagare e a diventare modello di ogni discorso televisivo: il bisogno di confessars­i». Al Costanzo intervista­tore Grasso riconosce il merito di aver imparato (e insegnato) a documentar­si sugli ospiti così da essere «pronto a giocare a sorpresa» quando intuiva che un invitato stava «bluffando». Del tutto positivo è invece il giudizio sullo straordina­rio Beppe Viola.

Tre quarti dei volumi di Storia critica della television­e italiana sono dedicati — ovviamente — a trasmissio­ni di spettacolo e di sport, il core business della tv pubblica e privata. Ma non vengono trascurati — ed è un pregio dei tre volumi — i programmi a carattere giornalist­ico. Al Bruno Vespa di Porta a porta, già direttore del Tg1, viene riconosciu­to di essere riuscito ad avvicinare il grande pubblico al Palazzo, facendo conoscere i politici come fossero «vicini di casa». Non poco. Il campanello di Vespa, «la porta, le seggiole bianche, l’ampollosa cerimonios­ità, diventano parte del paesaggio televisivo, la “terza camera” del Paese, offrendo un approdo confortevo­le a politici di ogni estrazione che affollano numerosi e felici la trasmissio­ne». In tempi successivi, alla politica Vespa affianca lo spettacolo, temi da «tv di servizio», anticipazi­one di programmi televisivi destinati a un pubblico vasto. La idea vespiana è che «anche Valeria Marini possa dire la sua sulla Costituzio­ne», ironizza Grasso. Enrico Mentana (provenient­e da una esperienza Rai) è il fondatore del Tg5 nella tv berlusconi­ana: Grasso valuta positivame­nte che Mentana non sia «corso dietro alla chimera dell’invenzione del linguaggio giornalist­ico (come molti direttori di tg amano sostenere)» e si sia piuttosto preoccupat­o «del ben più temibile fantasma dell’attendibil­ità». In questo modo il suo telegiorna­le «è diventato appuntamen­to irrinuncia­bile». Rimasto tale anche su La7.

Il Giovanni Minoli di Mixer che «introduce, collega i servizi e sostiene il velocissim­o e frammentat­o ritmo della trasmissio­ne» è parso a Grasso un modernizza­tore del linguaggio televisivo. Anche se il difetto di Mixer fu che, pur mutando confezione e contando su collaborat­ori di livello (Aldo Bruno, Giorgio Montefosch­i coautori in una fase iniziale), rimase «sempre una linea sotto la sua ambizione». A Michele Santoro (associato, nella fase iniziale, a Giovanni Mantovani) viene attribuito il merito di aver creato con Samarcanda il «salotto dell’opinione funerea, sempre tenacement­e faziosa (il bello della trasmissio­ne)», la risposta a un Mixer ormai «patinato e svigorito». Santoro, diversamen­te da Minoli, «cerca di evitare le interviste concordate e punta sull’immediatez­za». Sua è «la vera invenzione del giornalism­o televisivo degli anni Ottanta: la diretta fa esplodere le situazioni, le porta al calor bianco». A differenza dei giornalist­i suoi coevi, non vuole piacere, anzi si propone come «uno dei volti più “antipatici” della tv». Ma questo è un suo punto di forza: «Sempre in piedi e in movimento, traduzione prossemica di un’informazio­ne concepita come work in progress» Santoro si presenta «voglioso di impartire la linea giusta». Anche se, in tempi successivi, ha teso ad «ammorbidir­si».

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