L’arte dell’intervista in tv: complicità, ironia, equilibrio
N on giocando il Toro, domenica pomeriggio mi sono concesso il piacere di vedere su Sky Sport l’intervista che Paolo Condò ha fatto a Walter Mazzarri. L’allenatore dei granata non è persona facile da interpretare, è un riccio chiuso, così teso a dare un’identità alle proprie squadre che si fa fatica a capire la sua.
«Nel corso della carriera non ha goduto di sconti, non è mai salito di due gradini con un passo solo. È avanzato una partita dopo l’altra, col suo corredo di ansia, di adrenalina, di stress. E di passione». Ai suoi giocatori chiede in dote una sola qualità: l’orgoglio. È uno che rivendica fieramente ogni passo e ogni mansione svolta prima di diventare allenatore: «Preparatore dei portieri, osservatore … ho fatto tutto, tutti i mestieri del calcio, alla Primavera ci tengo, perché fu un anno bellissimo, dove io mi formai tanto, feci anche il corso di prima categoria e poi feci con i grandi il primo anno ad Acireale».
Ma non è il mio mestiere sviscerare gli allenatori, il mio sguardo si posava su Paolo Condò, triestino, l’unico giornalista italiano che vota per il Pallone d’oro. Che ha una dote straordinaria: sa trarre il meglio dai suoi interlocutori. Non è un intervistatore d’assalto (per fortuna!), mostra quella sorte di candore e complicità, unita però a un’impeccabile ironia, che si ritrova soltanto in qualche personaggio della grande letteratura mitteleuropea. Rude per tenerezza, freddo per amore, colmo di fede nel suo lavoro, Condò compie una sottile operazione di maieutica: saprebbe far parlare persino i pali delle porte. Nei commenti del dopo partita è il più equilibrato, nella situazione in cui il tifoso, per un verso o per l’altro, vorrebbe vedere scorrere il sangue.
Per questo il suo terreno d’elezione è l’intervista, dove, a differenza di noi tifosi, protegge la sua vita interiore dall’inselvatichirsi, i suoi pensieri da una durezza malsana.