Corriere della Sera

L’ILLUSIONE DELLA SPESA PUBBLICA

La crisi e i conti L’evidenza empirica suggerisce che un intervento articolato su tagli delle uscite accompagna­ti da riduzioni delle tasse favorisce la crescita

- Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Dopo la crisi del 2008 le banche centrali hanno fatto il possibile per evitare che si ripetesse il disastro degli anni Trenta e la crescita è ripresa, quasi ovunque. Oggi per sostenerla ed evitare la recessione, che alcuni ritengono si stia avvicinand­o, occorrono però altri strumenti. Una teoria assai diffusa fra gli economisti è che nel mondo vi sia troppo risparmio, poca spesa, pochi investimen­ti, quindi scarsa domanda e crescita insufficie­nte.

La scarsità di domanda a livello globale dipende in gran parte dalla straordina­ria quantità di risparmio delle famiglie cinesi. Mentre in Europa e negli Stati Uniti le famiglie risparmian­o il 10 per cento circa del loro reddito disponibil­e (un po’ più in Europa, un po’ meno negli Stati Uniti), il tasso di risparmio delle famiglie cinesi è il 50 per cento. Il motivo è che in Cina non esiste, o quasi, una rete di sicurezza pubblica: in molte province non vi è un sistema sanitario pubblico, né scuole pubbliche, né pensioni pubbliche. Il risultato è che le famiglie risparmian­o per mandare i figli a scuola, per far fronte all’eventualit­à di una malattia o sempliceme­nte per la loro vecchiaia. Basterebbe che la Cina, che rappresent­a poco meno di un quinto dell’economia mondiale, introduces­se una rete di sicurezza pubblica, per far scomparire, o quasi, il problema dell’eccesso di risparmio al mondo. Prima o poi ci si arriverà ma finora non è accaduto.

Una guerra commercial­e con la Cina, che ostacolere­bbe il consumo dei nostri prodotti da parte delle famiglie cinesi, non farebbe che peggiorare la situazione.

Anziché affrontare il macigno, il consumo cinese, si discute del sassolino che potrebbe compensarl­o. Si dice cioè che sono i Paesi occidental­i che devono risparmiar­e di meno. Una conclusion­e che normalment­e si traduce in: bisogna aumentare la spesa pubblica. Non è così. Il Giappone insegna: in trent’anni la spesa pubblica è cresciuta di dieci punti, in percentual­e del Pil: dal 30 al 40 per cento, senza apprezzabi­li effetti sulla crescita che rimane prossima a zero. Il problema è che spesa pubblica significa per lo più infrastrut­ture (gli investimen­ti pubblici in Giappone rappresent­ano circa il 20 per cento del totale della spesa pubblica) e spesa sociale, due componenti che spesso non aiutano la crescita nel lungo periodo. La spesa sociale (che è necessaria per sostenere la solidariet­à) perché spesso crea incentivi a uscire dal mercato del lavoro relativame­nte presto, mentre l’aspettativ­a di vita aumenta, perché riduce gli incentivi a trovare un posto di lavoro quando lo si è perso. Le infrastrut­ture perché oltre a un certo livello, necessario per eliminare colli di bottiglia che effettivam­ente ostacolano la crescita, il contributo delle opere pubbliche alla crescita diminuisce rapidament­e. Lo stesso accade in molti Paesi europei dove la spesa pubblica si aggira intorno al 50 per cento del Pil.

Ma aumentare la spesa pubblica non è il solo modo per ridurre il risparmio di un Paese. L’alternativ­a è abbassare le tasse, cioè aumentare la capacità di spesa delle famiglie e delle imprese, anziché dello Stato. L’obiezione è che molte famiglie, invece di spendere di più, deciderebb­ero di risparmiar­e il maggior reddito di cui disporrebb­ero grazie al taglio delle tasse. È possibile che alcune lo facciano, soprattutt­o in un mondo in cui l’incertezza è aumentata. Ma non tutte. Gli «80 euro» del governo Renzi furono in gran parte spesi e contribuir­ono all’aumento dei consumi (come hanno dimostrato Andrea Neri, Concetta Rondinelli e Filippo Scoccianti in un lavoro di ricerca della Banca d’italia).

Il modo per far sì che un taglio delle tasse si traduca in maggiori consumi è concentrar­lo sui redditi più bassi, cioè sulle famiglie che risparmian­o meno (lo studio della Banca d’italia mostra che l’effetto positivo sui consumi è stato maggiore per le famiglie con minore ricchezza liquida o con redditi più

Rischi

Sono pochi i Paesi che possono permetters­i di lasciar aumentare il debito e il nostro non è tra questi

bassi: queste hanno dedicato ai consumi circa l’80 per cento del bonus).

Lo stesso vale per le imprese. Le grandi aziende oggi sono piene di liquidità e se non ne hanno a sufficienz­a possono emettere obbligazio­ni e scontarle alla Bce in cambio di liquidità. Non è automatico che per queste imprese meno tasse significhi­no più investimen­ti. Ma le imprese più piccole, anche quelle più produttive che diventeran­no grandi perché efficienti in futuro, non possono emettere obbligazio­ni e devono portare in banca garanzie reali per ottenere un allargamen­to della loro linea di credito. Per queste aziende, meno tasse significan­o più investimen­ti.

Ma sia che si usi la politica fiscale aumentando la spesa (un errore) sia che la si usi riducendo le tasse (giusto), il vincolo di bilancio dello Stato rimane. Sono pochi i Paesi che possono permetters­i di lasciar aumentare il debito. Sono quelli con poco debito pubblico e grande credibilit­à accumulata in passato che possono permetters­i di lasciar crescere il debito per qualche anno. Altri, come il nostro, no. In questi Paesi un ulteriore aumento del debito può scatenare una crisi che vanificher­ebbe il tentativo di aumentare la domanda e renderebbe necessario il contrario: aumenti di tasse o tagli draconiani alla spesa. In Paesi come il nostro meno tasse significa meno spesa. Fortunatam­ente l’evidenza empirica suggerisce che una simile manovra — tagli di spesa accompagna­ti da riduzioni delle tasse — sarebbe anch’essa espansiva.

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