I due stili agli antipodi
Non potrebbero essere più diversi, per stile e approccio politico ai problemi, i due capi di Stato ieri insieme alla Casa Bianca.
D a un lato c’è Sergio Mattarella, con lo sguardo più aggrottato del solito, le spalle chiuse, la voce bassa e tesa, che sollecita «un metodo collaborativo per trovare insieme delle soluzioni» allo scontro sui dazi ed evitare così che si produca una «spirale di ritorsioni da ambo le parti».
Dall’altro lato c’è Donald Trump, che fissa con aria spavalda le telecamere, allarga assertivamente le braccia per rafforzare i concetti, parla con toni stentorei, evoca i dazi come «un risarcimento dovuto» all’america e accusa semmai l’europa d’aver «approfittato della debolezza» dei suoi predecessori, e chiude il discorso con un «adesso pari siamo», concedendo una complice strizzatina d’occhio a qualche cronista.
Non potrebbero essere più diversi di così, per stile e approccio politico ai problemi, i due capi di Stato che ieri si sono incontrati alla Casa Bianca. A rivelarlo, a conferma degli indizi offerti dal linguaggio del corpo, la sostanza di quanto si sono detti e che è andato oltre lo spinoso dossier della guerra commerciale tra Ue e Usa, dilagando sul blitz turco in Siria, sulla Nato, sugli F-35, sui rapporti con la Cina. Semplici discordanze, le definiscono con diplomatica edulcorazione gli staff presidenziali. Ora, che su alcuni temi Trump andasse all’attacco era scontato, visto che gli Stati Uniti sono già in campagna elettorale. Fatale dunque che nella delegazione del Quirinale nessuno si illudesse che questa fosse una missione facile. Se non altro perché era destinata a mettere a confronto due visioni geopolitiche che devono comunque continuare a sopravvivere. Pena la disgregazione mondiale.
Certo, la visita è cominciata con l’elogio del «rapporto speciale» che lega i due Paesi, «mai così vicini». Ma, fin da prima della conferenza stampa, il padrone di casa aveva promesso scintille proprio sui dazi, innescando subito un batti e ribatti con l’ospite. Mattarella, rivelatosi più arcigno di quel che molti si aspetterebbero data la sua mitezza esteriore, ha tenuto il punto. Invocando «un metodo collaborativo» — il suo modo di declinare la moral suasion — in grado di evitare ritorsioni di segno opposto tra pochi mesi, dopo l’atteso pronunciamento del Wto sui finanziamenti Usa alla Boeing. E qui, su questa guerra economica, parlava quasi più per l’europa che per l’italia, considerato che i dazi minacciati dagli Stati Uniti valgono solo lo 0,8 per cento delle nostre esportazioni. Alla fine, Trump si è rassegnato con un’apertura: «Accogliamo l’invito dell’italia a cercare un accordo con la Ue sul tema del deficit commerciale. Potrei risolverlo ora, ma sarebbe troppo pesante. Non voglio essere duro».
Altro terreno di scontro, e di forte presa elettorale oltreatlantico, la Nato e la crisi siriana. Con Trump che insisteva sulla necessità di un riarmo e ammodernamento dell’alleanza (il che si traduce in un «versate più soldi»), e con Mattarella che gli dava sulla voce ricordando che «l’italia è il quinto contributore della Nato e il secondo per quel che concerne le missioni all’estero». Sulla Siria oggi sotto attacco da Erdogan, infine, l’ultimo acuto del presidente americano e l’ultima secca replica del collega giunto da Roma. Spetta a Damasco e Ankara risolvere il problema curdo, dice il primo, «e forse basteranno le sanzioni». «Amicus Plato, sed magis amica veritas», è la risposta del nostro
capo dello Stato. Il quale, citando la sentenza latina, non cede: «Platone è mio amico, ma la verità lo è di più. Quello della Turchia resta un grave errore, che l’italia ha condannato senza esitazioni».
Mattarella ha parlato quasi più per conto dell’europa che per l’interesse del suo Paese