Sui contanti e il carcere urla, veti e minacce fino alle 5 del mattino
Renziani e 5 Stelle in prima linea nella riunione fiume
L’alba della manovra arriva alle 5 di ieri mattina, quando il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il ministro dell’economia Roberto Gualtieri scendono nella sala stampa di Palazzo Chigi stremati e digiuni dopo sei ore di dibattito e scontro, anche molto acceso, a nervi tirati e stomaco vuoto. «Cosa ci hanno offerto da mangiare? Assolutamente nulla — racconta un partecipante — Abbiamo avuto solo acqua».
Deve averne bevuta molta la renziana Teresa Bellanova per mandare giù la mediazione sul tetto al contante, raggiunta dopo minacce e grida che mai si erano sentite, da quando è iniziata l’era giallo-rossa, attorno al grande tavolo rotondo. «Abbassare a mille euro la soglia è sbagliato, penalizza i consumi e non c’entra nulla con la lotta all’evasione», strilla alle due di notte Bellanova, sostenuta moralmente dai 5 Stelle e descritta dai dem come «teleguidata da Renzi via whatsapp».
Dario Franceschini prova a placarla e ricorda che nel 2015, quando sotto il governo Renzi il tetto balzò a tremila euro, fu lui a opporsi nel chiuso del Consiglio dei ministri, da cui uscì dichiarando sconsolato: «Ha vinto Alfano». L’aneddoto irrita ancor più la ministra renziana, cui in sostanza il capodelegazione del Pd chiede di adeguarsi alla volontà della maggioranza.
Toni accesi e qualche acuto, finché Roberto Speranza, il ministro di Leu euforico per la «vittoria senza precedenti» sull’abolizione dei superticket in sanità, si schiera dalla parte di Conte: «Teresa, non puoi dire “o si fa così o non votiamo”, fai una controproposta e poi si ragiona». Bellanova beve un lungo sorso d’acqua, chatta di nuovo con Renzi e poi chiede che il tetto resti a tremila per il primo anno, per poi scendere a due. Il mezzo passo indietro consente al premier di trovare il compromesso: duemila per i primi due anni e mille dal 2022.
Conte ha deciso che l’anima della manovra dovrà essere la lotta all’evasione fiscale e, spalleggiato dal Pd, arriva a evocare la fine prematura dell’esecutivo: «Se manca il coraggio per fare le cose, è inutile andare avanti». Di Maio è in missione negli Stati Uniti, ma i suoi ministri parlano per lui e insinuano che Palazzo Chigi voglia fustigare i piccoli evasori e concedere sconti a chi porta grandi capitali all’estero. Ecco che Alfonso Bonafede si impunta sulla galera. «Per noi è fondamentale, è una bandiera», alza la voce il Guardasigilli, ancora scottato perché la misura si arenò ai tempi del governo con la Lega.
Il Pd fa muro. Non perché sia contrario a inasprire le pene ai furbetti del 730, ma perché ritiene troppo hard modificare il codice penale per decreto. Bonafede si inalbera: «È nel programma!». Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini quasi perde la pazienza: «Il carcere alle 4 di notte, con una norma che nessuno ha visto?». E Franceschini interpreta i pensieri (e le paure) del premier: «Si farà, ma con un’intesa politica. Dobbiamo evitare l’errore che portò alla caduta del Conte uno, quando l’azione del governo veniva interpretata per sfere di influenza. Non funziona così».
Persino i tecnici, descritti dai dem come «indispettiti», si alzano dalle seggiole per esprimere dubbi e proporre soluzioni. Ed ecco che la mediazione, a fatica, si trova. Nel decreto fiscale viene infilato un «rampino» che consentirà di portare in Parlamento la discussione sulle manette. Bonafede scriverà un emendamento della maggioranza in tandem con il predecessore e vicesegretario del Pd, Andrea Orlando. Uno dei tanti emendamenti che, c’è da giurarci, pioveranno sulla manovra.
I renziani scalpitano. Luigi Marattin giudica «buono» il risultato, però ammette che le ambizioni dell’ex premier sono più alte: «Se abolissimo Quota 100, nel 2021 avremmo 4 miliardi per le famiglie italiane». È giorno, ‘a nuttata è passata e davanti ai giornalisti Conte ritrova il sorriso: «La manovra è espansiva, dobbiamo ritenerci soddisfatti».